Dalie in un vaso di Delft. Paul Cézanne. Museo d’Orsay. Parigi.
In Francia, non si dice una dalia, ma un dahlia. La dalia italiana è una principessa mentre il dahlia francese è un principe. Non ho bene capito perché nel mio dizionario di italiano la dalia ha perso l’acca. La pianta fu introdotta nel 1789, in Europa, dal Messico dal direttore del giardino di Messico che mandò dei semi al suo omologo del Giardino Reale di Madrid. Era una pianta già conosciutissima in Messico e gli aztechi se facevano addirittura dei costumi con i fiori per danzare durante i loro giorni di festa. Al giardino Reale di Madrid battezzarono la pianta messicana: dahlia, in onore del botanista svedese Anders Dahl. Quindi perché la pianta ha perso, non solo il maschile, ma anche l’acca in italiano? Mistero. E, sto pensando, meno male che la pianta non abbia conservata il suo nome azteco perché cosa avrebbe dato il nome divertente di Chichipalti in italiano. Secondo me, esistono due tipi di giardinieri dilettanti: i cretini che disprezzano le dalie e che vi diranno che sono piante per vecchiette, che le dalie non sono più alla moda da almeno un secolo. Poi, vi sosteranno che i colori forti delle dalie danno l’emicrania e che il giardino moderno deve essere per forza monocromo, che comunque le dalie sono troppo orgogliose per i giardini di oggi. Questa categoria di giardinieri potete essere sicuri che non hanno mai coltivato le dalie nei loro giardini e che hanno solo un pregiudizio nei confronti di questa bellissima principessa azteca. Poi, c’è un’altra categoria, di cui faccio parte, una minoranza discriminata, quella dei giardinieri che hanno una passione per le dalie, che le adorano, che trovano che sono facili da coltivare e che non deludono mai. Siccome la moda non è assolutamente alle dalie, loro devono coltivarle quasi di nascosto come si coltiva gli amori segreti, in un angolo del giardino in cui sono sicuri che le persone che disprezzano le dalie non verranno mai mettere il naso. Un piccolo giardino segreto da coltivare mentre le dalie meriterebbero il posto d’onore del giardino. E poi, sempre l’angoscia che stringe il giardiniere amante delle dalie di essere scoperto e di dover giustificarsi con le scuse più inverosimili: No, no, ho piantato qualcosa ma non sapevo che fossero dalie; è la vecchia accanto che mi ha dato qualche tubero, ovviamente non potevo rifiutare; penso siano venute in modo spontaneo, forse si sono seminate da solo…ecc. E poi, il sollievo, la confessione davanti all’insistenza del ficcanaso. Va bene, mi hai smascherato. Sono innamorato delle dalie, smetto la commedia perché, nel fondo, non c’è da vergognarsi di questa passione. Il tizio se ne andrà alzando le spalle e sapete già che al prossimo mercato dei fiori del paese, tutte le persone vi guarderanno ormai come lo strano tizio che coltiva delle dalie. Ieri, faceva un bel tempo e non ho resistito. Ho fatto un’enorme sciocchezza. Ho piantato le mie dalie. Avevo i miei tuberi di dalia nel garage e quasi mi gridavano. Dai, Alex! Abbiamo passato tutto l’inverno su questa mensola, nell’oscurità. La terra è calda. È tempo di piantarci. Giuro che ho tentato di resistere. Cosa state dicendo poverette! I Santi di ghiaccio non sono passati, volete morire? No, no, Alex! Questo vale solo per le regioni del Nord. A Bordeaux, non ci saranno più gelate, siamo già quasi in aprile. Non so come mi sono lasciato convincere da questa follia. Prima di andare a letto, sono andato a mettere della paglia e una copertina sulle mie dalie per la loro prima notte. Sono sicuro che non vivrò più i quindici prossimi giorni per questa questione di meteo. Poi dopo dovrei preoccuparmi per le lumache perché anche esse hanno la passione delle dalie. Non è vita questo amore delle principesse azteche!
Semplice da spiegare. In Francia, le pentole non servono solo in cucina. Se sentite associare i candidati alle pentole o che li vedete accolti dagli avversari da concerti di pentole prima i loro meeting, c’è una ragione. Un espressione francese: Avere pentole, trascinare pentole, avere pentole al culo. L’espressione si usa per qualcuno che ha commesso delitti, che ha un passato losco, che ha una cattiva reputazione legata ad attività passate, che ha problemi o che è fonte di problemi, che ha un passato inconfessabile che potrebbe tornare a galla, che ha qualcosa di deprecabile a nascondere…ecc.
E gli elettori? mi direte. Loro ovviamente, per forza, devono passare alla pentola che è un’altra espressione francese con la parola pentola. Passare alla pentola significa in senso generico: Sottoporre a una dura prova, fare subire a qualcuno qualcosa di difficile, di spiacevole, essere ucciso per riferimento al pollame che è ucciso per appunto passare alla pentola. Poi, in senso più triviale, passare alla pentola significa scopare, subire un atto sessuale, farsi fottere…ecc. Insomma gli uni hanno le pentole e gli altri sono cucinati. Meravigliosa e colorita lingua francese. 😉
All’occasione di questa giornata internazionale della francofonia evocata nel mio ultimo post, ho scoperto, ieri sera, ascoltando la radio, che la lingua francese aveva partorito di una nuova stranezza. In francese, la parola per dire levatrice è sage-femme e non importa che la sage-femme sia un uomo o una donna. Si dice una sage-femme (letteralmente che conosce la donna) o un uomo sage-femme. Io la pensavo così fino a ieri sera. E bene, ho imparato, sbalordito, che non è assolutamente più il caso e che il nome della professione è cambiato. All’inizio pensavo che fosse perché il nome di questo mestiere sa un po’ di stregoneria. Ma non è per questo motivo. Figuratevi che gli uomini che scelgono di essere sage-femme non vogliono più sentire il termine “femme” nel nome del loro mestiere. Quindi è stata rispolverata una vecchia parola greca e, ormai, è raccomandato di usare il termine maïeuticien (maieutico) per un uomo e maïeuticienne (maieutica) per una donna. Perché fare semplice quando si può fare complicato come avrebbe detto mia nonna. Troppo popolare, non abbastanza snob il nome di sage-femme che è usato da secoli. Torniamo alle radici greche e usiamo di una parola che è associata più alla filosofia socratica che alla madre di Socrate. Non abbiamo paura del ridicolo e abbasso il termine sage-femme che non fa abbastanza figo! Notate che la cosa non cambia niente all’affare e i maieutici fanno esattamente lo stesso mestiere delle colleghe che loro non vogliono rinunciare alla bellissima parola di sage-femme. Perché non andate a pensare che i maieutici usano qualche metodo socratico per spingere la partoriente a partorire anche qualche verità durante il travaglio – per questo basta lasciare nella stanza il tizio che ha messo la ragazza incinta. No. Assolutamente no. Non c’è nemmeno bisogno di aver qualche nozione di filosofia o essere discepolo di Socrate per praticare la maieutica! Va bene. Che si chiamano come vogliono. Dopotutto quello che si chiede a questi nuovi Socrate è di sapere che Conium maculatum non è il nome di un farmaco. 😉
Il 20 marzo è la giornata internazionale della francofonia e ho scelto di parlarvi della parola “combinazione” che sentirete molto in Francia in quel periodo elettorale. Una parola divertente perché i francesi pronunciano sempre la parola “combinazione” (o combinazioni al plurale) con il loro migliore accento italiano senza sapere che il senso che loro danno alla parola “combinazione” è completamente sconosciuto in italiano! Combinazione è il falso amico tipico. Avete un’idea di cosa significa “combinazione” in francese? Niente coincidenza, caso o imprevisto! Anzi combinazione in francese designa tutti gli intrighi che ordiscono i nostri politici per mantenersi o impadronirsi a tutti i costi del potere: il clientelismo, la lottizzazione, la corruzione, le truffe ai danni dei cittadini, la compravendita di deputati, il giocarsi con la legalità, la prevaricazione…ecc. Quindi se sentite parlare di combinazioni in Francia durante le elezioni presidenziali, non è che i giornalisti si interessano particolarmente agli indumenti intimi di Marine Le Pen o che cercano i numeri della cassaforte di François Fillon…. 😉
L’Utile, una nave della Compagnia francese delle Indie Orientali, prende il mare a Bayonne nel novembre 1760. La sua destinazione: L’Isola di Francia (Mauritius oggi) con lo scopo di assicurarne l’approvvigionamento. Lafargue, il capitano, comanda un equipaggio di 140 uomini esercitando i diversi mestieri di pilota, carpentiere, panettiere, cappellano, chirurgo, scrittore…La nave è un fluyt cioè una nave di trasporto marittimo di cui la stiva trabocca di viveri per 18 mesi: farina, biscotti, botti di vino, d’acqua, carne, baccalà, pollame, bestiame…insomma tutto quello che potete immaginare per un periplo di questo tipo. Riuscire a imbarcare tutto e trovare un equipaggio ha messo più di sei mesi: la guerra dei sette anni che dilania l’Europa e i territori coloniali pesa come un macigno sulla missione. Eludendo con maestria il blocco inglese delle coste francesi, una navigazione pericolosa si ingaggia che consiste a evitare a tutti i costi la marina inglese. Dopo 147 giorni attraverso mari e venti temuti, senza perdita umana però, il 12 aprile 1761, l’Utile raggiunge l’Isola di Francia e ancora a Port Louis, la sua prima tappa. A questo punto devo scrivere due parole sulla tratta dei neri. La situazione è quella: teoricamente, la Compagnia francese delle Indie Orientali ha il monopolio della tratta degli schiavi, però, ovviamente, nella realtà gli impiegati della Compagnia fanno la tratta per i loro propri benefici senza riferirne alla Compagnia che comunque chiude gli occhi. Un capitano e il suo equipaggio possono facilmente guadagnare dieci anni di stipendio annuale solo con un viaggio con un carico di schiavi portati da Madagascar e rivenduti all’isola di Francia. La tentazione è grande per l’equipaggio dell’Utile. Però ci sono due problemi per il capitano Lafargue: la tratta è stata proibita dal dicembre 1760 dal governatore dell’Isola di Francia perché l’isola conosce la carestia e già i neri crepano di fame nelle piantagioni dell’isola quindi portare ancora degli schiavi sull’isola sarebbe solo accentuare il problema e rischiare delle rivolte, l’altro problema sono i soldi e ci vuole un capitale conseguente per comprare degli schiavi a Madagascar e l’equipaggio dell’Utile possiede forse nemmeno un decimo del denaro necessario. Quindi cosa fa il capitano Lafargue? Si cerca dei soci pronti a investire dei fondi nell’operazione e ne trova, ovviamente, presso i coloni che hanno bisogno di manodopera, certi ufficiali dello stato maggiore, i commercianti…insomma presso tutti quelli che si aspettano a raddoppiare il loro investimento in questa avventura. I soldi sono riuniti e il capitano Lafargue ha un piano. Il primo passo della tragedia è fatto. Da Port-Louis, L’Utile è mandato a Madagascar per comprare dei viveri, riso e buoi in particolare, destinati ad approvvigionare l’Isola di Francia. Ma, appena arrivato a Foulpointe, il capitano imbarca anche circa 160 schiavi malgaschi (uomini, donne, adolescenti), comprati per una somma considerevole al capo della tratta locale e la speranza di un profitto stimato al doppio. Ovviamente, l’Utile non può tornare all’Isola di Francia con il suo carico di schiavi. Il piano di Lafargue è di contornare dal nord l’Isola di Francia per evitare la marina reale francese e quella inglese e di sbarcare gli schiavi sull‘isola Rodrigue, poi di convogliarli in piccoli gruppi fino all’Isola di Francia. Ha tanto fretta di toccare il suo profitto il nostro capitano Lafargue che lui si decide, contro tutte le regole di allora, di navigare di notte. L’equipaggio è preso dalla paura. Il capitano e il pilota ne vengono quasi ai mani perché ci sono due mappe a bordo e Lafargue si affida solo alla più vecchia. E più il pilota tenta di convincere il capitano di tracciare la sua strada con la nuova mappa, più l’altro si ostina a usare la vecchia che non vale niente. Succede quello che deve succedere. Il 31 luglio 1761, l’Utile si incaglia nella barriera corallina che circonda la minuscola isola di sabbia (isola di Tromelin oggi) in mezzo alle onde frangenti che battono l’isola in estate. Per sollevare la nave in preda ai frangenti, il primo luogotenente Castellan du Vernet fa abbattere gli alberi e buttare i cannoni al mare. Malmenato dal mareggio, il timone è divelto. Tutte le strutture e i ponti crollano. Intrappolati nella stiva dove gli schiavi sono chiusi ogni notte per timore delle rivolte. Gli schiavi sono liberati solo perché la stiva si disloca. Mentre 18 marinai e 70 schiavi annegano. 210 superstiti riescono a raggiungere a nuoto le spiagge deserte dell’isolotto di appena 1 km². Sull’isola ostile, il primo luogotenente Castellan organizza la sopravvivenza (il capitano Lafargue ha perso definitivamente la ragione). Tutto quello che può essere ricuperato nel relitto, viveri e attrezzi, per assicurare la sopravvivenza è prelevato. Privi di acqua, 8 schiavi soccombono nelle prime ore e una trentina nei giorni successivi. Il capocannoniere in carica di scavare un pozzo, dopo aver fallito più volte, riesce finalmente a trovare un’acqua salmastra a 5 metri di profondità. Lo scrittore di bordo tiene un elenco dei viveri; tutto furto ed è la pena di morte. Pesca, cattura di tartarughe e di sterne forniscono l’alimentazione di base. Delle tende sono fabbricate con le vele. Si costruisce un forno e una fucina. Castellan disegna i piani di una scialuppa, la Provvidenza. Costruita con le macerie del relitto e l’aiuto attiva degli schiavi a chi i marinai hanno giurato che potranno salire a bordo e scappare all’inferno. Dopo due mesi di coabitazione, l’equipaggio riprende il mare verso Madagascar. Purtroppo la scialuppa è troppo piccola e i 60 schiavi superstiti sono abbandonati sull’isola, con la promessa d’ufficiale fatta da Castellan che i soccorsi saranno inviati al più presto. Immaginate il silenzio che accoglie la notizie e lo spavento di questa gente originaria dell’altipiano malgascio, imprigionata e condannata ad aspettare su questa zattera di sabbia in mezzo all’Oceano indiano un eventuale soccorso; è la morte assicurata. Castellan fa di tutto per tenere la sua promessa. Durante dieci anni, il luogotenente incalza il ministro della Marina di inviare una missione di soccorso. Finalmente, nel 1772, dopo un’ennesima lettera di Castellan al ministro della Marina, un ordine è lanciato. Ma è soltanto nel 1775 che una prima nave, la Sauterelle, si presenta su zona. La scialuppa di salvataggio è travolta dalle onde e inabissa, un marinaio riesce a raggiungere a nuoto i superstiti sulla riva. L’anno seguente, ci sono altri tentativi, in vano. Disperato di essere salvato, il marinaio costruisce una barca di cui la vela è fatta di piume d’uccelli. Lui parte con tre donne e i tre ultimi uomini…non si sentirà mai più parlare di loro. Quattro mese dopo, comandata da Jacques-Marie de Tromelin, la corvetta la Dauphine arriva sull’isola di sabbia, il 28 novembre 1776, quindici anni dopo il naufragio. Sette donne e un bambino di otto mesi sono ricuperati. Una volta sull’Isola di Francia, i superstiti sono dichiarati liberi, poi la loro traccia si perde…
245 anni dopo il naufragio dell’Utile, l’isola di sabbia che si chiama ormai l’isola di Tromelin è sempre la stessa, un lembo di terra francese di 1 km² a forma di mandorla in mezzo all’Oceano indiano, il banco di sabbia si trova all’incrocio di tutti i cicloni e le tempeste che attraversano l’Oceano indiano per cui una stazione meteo ci è stato sistemato negli anni 1950 e una pista di atterraggio per gli aerei che permette l’approvvigionamento degli scienziati. La civiltà più vicina si trova a 450 chilometri da Tromelin. Un meteorologo francese, in missione sull’isola, è intrigato da un’ancora che emerge a 30 metri dalla riva e dai vestigi di cannoni tanto corrosi che hanno perso la loro forma originale. Lo scienzato è tanto intrigato, e poi non c’è niente a fare sull’isola, che lui ha l’idea di contattare Max Guérout che è un archeologo navale francese di fama mondiale. L’archeologo è interessato e si mette a cercare informazioni su questo naufragio negli archivi della Marina e a Lorient, in Bretagna, negli archivi del museo della Compagnia delle Indie Orientali. L’archeologo scopre tutto sull’Utile e il suo naufragio perché il caso è estremamente ben documentato e c’è anche di più cioè il racconto preciso sotto forma di giornale scritto dallo scrittore di bordo. Siamo nel 2006 e gli schiavi dimenticati dell’isola di Tromelin stanno per tornare a galla nella nostra memoria grazie a un’ancora corrosa alla fine del mondo. La storia che restituisce l’archeologo attraverso i documenti è incompleta. C’è qualcosa di enigmatico, di misterioso, che interroga l’archeologo attraverso la lettura e lo studio dei documenti dell’amministrazione francese. Ciò che non è mai scritto nei documenti e che riguarda il periodo 1761-1776. Come un gruppo di schiavi abbandonato su Tromelin è riuscito a sopravvivere durante quindici anni su una delle isole più inospitali del Mondo? Come gli schiavi sono riusciti a proteggersi dai cicloni? Come hanno fatto per bere e nutrirsi? Come sono riusciti a mantenere un fuoco mentre non ci sono alberi sull’isola? Come hanno fatto per resistere all’isolamento e a conservare la speranza? E mille altre domande di questo tipo. Per rispondere a tutte queste domande e ritrovare tracce di questa tragedia, una prima campagna archeologica è organizzata su Tromelin nel 2006 (ce ne saranno 4 fino all’ultima di 2013). E là, nascosto sotto la sabbia di Tromelin, esterrefatti, gli archeologici, scoprono che, oltre agli imperativi di sopravvivenza, gli schiavi malgasci hanno ricostruito una società.
Non dico niente di più. Se venite a Bordeaux, andate a vedere la mostra: Tromelin, l’isola degli schiavi dimenticati, (fino al 30 aprile) che risponde alle domande che si sono poste gli archeologici a proposito degli schiavi di Tromelin. E se non avete la possibilità di venire a Bordeaux e che masticate un po’ di francese, guardate il video sotto che racconta la prima campagna archeologica del 2006.
Oggi, facciamo un viaggio fino alla grotta di Lourdes, non quella che visitano milioni di pellegrini, ogni anno, nei Pirenei, ma quella che si trova nella penisola del Médoc, a nord da Bordeaux, e che è situata ad Artigues che è una frazione della cittadina di Pauillac; credeteci o no, c’è una grotta di Lourdes in mezzo al più famoso vigneto del Mondo a due passi da casa mia. Non è frequentata come l’altra, ma comunque ci sono due donne che stanno pregando in un angolo della grotta e, come non voglio disturbarle, non vedrete tutto l’interno negli scatti. La nostra grotta di Lourdes è stata edificata nel 1897 da una viticoltrice bordolese e ne è una replica fedele. Ovviamente, c’è un perché che spiega la presenza singolare di questa grotta di Lourdes nel cuore del Médoc, qualcosa che riguarda la vigna e il vino e che voglio raccontarvi non senza qualche digressione. Dunque siamo negli anni 1860 e la signorina Anne-Françoise Averous, figlia di un famoso produttore di vino della zona, ha ereditato di una grande e bellissima azienda vitivinicola che costeggia la palude di Pibran nei dintorni di Pauillac. A cosa assomigliava la signorina Anne-Françoise? Diciamo che lei non era una bellezza per usare un eufemismo e forse avete sentito parlare della Santa Caterina in Francia dove si festeggia le ragazze di 25 anni che sono ancora single e che devono portare un cappello verde per tutta la giornata. Ai tempi di Anne-Françoise, non si festeggiava niente. Un giorno orrendo questo 25 novembre che tornava ogni anno. Le ragazze di allora, in un certo ceto sociale, avevano una data di scadenza come il cibo in scatola. Una ragazza non sposata a 25 anni, non trovava più di marito ed era quasi condannata a finire zitella. Quindi Anne-Françoise era in questa situazione tranne che lei se ne fregava alla grande di non essere bella e, nel fondo, era soddisfatta di non essere sposata e di non aver un tizio sulla schiena tutta la santa giornata, così lei poteva dedicarsi tranquillamente alla coltivazione delle sue vigne. Non significa però che la tizia non aveva una grande passione, un amore divorante nella vita. Eravamo solo qualche anno dopo le apparizioni della Signora a Bernadette Soubirous nella grotta di Massabielle e, Anne-Françoise consacrava un vero e proprio culto all’immacolata concezione nella persona della Signora di Lourdes nonché un’ammirazione senza limite per la piccola mistica guascone, Bernadette Soubirous, di cui il cognome rimava con il suo. Ora, siamo nel 1875 e la moda è di fare costruire delle torri nei vigneti per permettere ai proprietari degli château di sorvegliare i loro lavoratori. Queste torri le vedrete ovunque nei vigneti del Médoc. A due passi dalla nostra grotta di Lourdes, sulla strada provinciale tra Pauillac e Saint-Laurent de Médoc, nel vigneto dello Château Haut-Batailley, c’è una torre di questo tipo che è conosciuta per essere la più bella della zona e che i turisti scattano senza sapere di cosa si tratta. Il monumento si chiama la “Tour de l’Aspic” (la Torre dell’aspide) e fu edificata dalla nostra pia Anne-Françoise. Non è solo una torre d’osservazione perché il duomo che culmina a 15 metri è sormontato da una statua della Vergine che, invece di pigiare l’uva che permette alla povera gente del paese di sopravvivere, calpesta una vipera (di cui il nome. Nel Médoc: vipera si dice aspide) che, da sempre, simboleggia il male. Ma cos’è il male per Anne-Françoise nella sua Francia del 1875? Il male è la Repubblica francese e tutta questa genia che lotta all’ultimo sangue contro il clericalismo e che deride tutta quest’altra Francia cattolica che crede ancora alle superstizioni e alle apparizioni della Vergine a Lourdes all’alba del XX secolo; è questa la vipera calpestata dalla Signora in cima alla torre. La Francia di allora è un Paese in guerra tra clericalismo e anticlericalismo e lo sarà ancora per un lungo tempo. Va bene. Passano venti anni e arriviamo all’edificazione della nostra grotta di Lourdes nel 1897. La vipera repubblicana non è stata schiacciata. E ora, Anne-Françoise deve entrare in guerra contro una seconda vipera che rende addirittura la prima simpatica, un’americana, un flagello di Dio che devasta e distrugge tutte le vigne del Paese: la filossera del diavolo. I bordolesi sono disperati e non sanno cosa fare per lottare contro il maledetto insetto. La nostra viticoltrice Anne-Françoise, sempre più pia e mistica, ha la sua idea per vincere la filossera e, come i soldi non le mancano, si fa costruire la sua grotta di Lourdes che vedete sopra. L’idea di Anne-Françoise, non è soltanto di aver una grotta per pregare la Signora e aspettare un eventuale miracolo. No. La sua idea è di tipo pratica perché lei ci crede veramente al potere miracoloso e di guarigione dell’acqua di Lourdes; la sua idea è di spruzzare dell’acqua benedetta di Lourdes sulle sue vigne per immunizzarle contro l’insetto maledetto. Forse avete un’obiezione tipo non è perché lei ha fatto una grotta di Lourdes che l’acqua santa ci scaturirà. Giusto. Quindi semplicemente l’acqua benedetta verrà portata alla grotta di Anne-Françoise dalla grotta di Lourdes originale. Anne-Françoise conclude un patto, non con il diavolo, ma con il cappellano della grotta di Lourdes. Ad ogni piena botte del suo miglior vino che Anne-Françoise gli manda, il cappello deve rinviare la botte, a sue spese, lavata e riempita di acqua benedetta. E posso dirvi che con questo patto, l’acqua scorreva a fiumi nella nostra replica della grotta di Lourdes! Il miracolo è avvenuto? la filossera è stata vinta da questo trattamento all’acqua benedetta? No. Il vigneto di Anne-Françoise è stato distrutto con tutti gli altri che erano situati nei dintorni. Però, secondo Anne-Françoise che non voleva arrendersi all’evidenza, era tutta colpa dei suoi lavoratori pigri e miscredenti, che invece di fare tutto il tragitto fino alla grotta e risalire con delle bacinelle piene di acqua benedetta per andare ad annaffiare le vigne, preferivano attingere l’acqua alla fonte Batailley che era più vicina. E lei li vedeva fare questi serpenti dall’alto della sua torre…
Non mancate il prossimo post! Soprattutto che ho fatto tutto il viaggio da Bordeaux solo per raccontarvi, davanti alla grotta, la curiosa storia di una ragazza di Bordeaux che era acquasantadipendente! 😉