Bacino di Arcachon: Il tizio che voleva andare alla duna del Pilat e che si è fermato a Bisanzio!

Il Moulleau è la frazione più a Ovest della città senza inverno cioè Arcachon; dopo il Moulleau c’è la duna del Pilat. Nel mezzo del XIX secolo, era un paese di pescatori perso nelle dune ed era tutta una spedizione di raggiungerlo da Arcachon. Poi, ci sono imprenditori immobiliari che hanno deciso di farne una stazione balneare per clienti in ricerca di tranquillità, dei beretti da notte come si dice in francese per designare i guastafeste. Il Moulleau si voleva l’equivalente della città d’inverno di Arcachon senza la vita dissoluta che la gente ci menava tra casinò e feste senza fine. Il sole splende e la temperatura raggiunge quasi i venti gradi. Anche se siamo a fine gennaio, sembra una giornata di primavera. Salgo la duna per raggiungere in cima la chiesa di stile bizantino di Notre-Dame-des-Passes. Le “Passes” sono gli stretti pericolosissimi tra i banchi di sabbia mobili all’ingresso del Bacino di Arcachon che devono varcare le navi che vogliono entrare o uscire dal Bacino di Arcachon. Ogni anno, ci sono degli incidenti e Notre-Dame-des-Passes è dedicata ai marinai che rischiano la pelle negli stretti. Moulleau all’origine è il nome di questa duna e significa la stessa cosa di Pilat cioè mucchio di sabbia. La chiesa bizantina è stata costruita nello stesso tempo della stazione balneare cioè tra il 1863 e il 1864. Gli imprenditori immobiliari hanno dato la duna del Moulleau all’ordine domenicano affinché siano costruiti un convento e una cappella. Non per una questione di filantropia, pensate, ma perché nessuno avrebbe comprato o affittato una casa senza che ci sia una chiesa a prossimità. Nel post: la ragazza che sognava di una città senza inverno, vi avevo raccontato come, una volta, la città di Arcachon era un immenso sanatorio per la cura della tubercolosi. Nessuno malato sarebbe andato a sistemarsi al Moulleau sapendo che ci voleva fare quattro a cinque chilometri a piedi o in carro, attraverso le dune, per raggiungere la chiesa di Arcachon. Erano altri tempi. Mi fermo un attimo sul piazzale della chiesa e mi volto per guardare il panorama verso il Bacino di Arcachon. La chiesa è allineata perfettamente con il molo e il faro del Cap-Ferret sull’altra sponda. Non si scherza con l’estetica e, una volta, il molo era a sinistra dal Grand-Hôtel e, dunque, negli anni 60, questo molo è stato demolito per farne un altro a destra che sia perfettamente allineato con il faro. Entro nella chiesa per andare a sbirciare una statua molto rara – ne esistono solo due altre in Francia – che raffigura una madonna incinta fino alle orecchie, la Vergine dell’Avvento lei si chiama e si è salvata da un incendio dalla Casa Madre della Compagnia delle Figlie della Carità, 140 Rue du Bac a Parigi. Uscendo dalla chiesa, posso sentire le vostre osservazioni tipo: “Non fa troppo bizantina questa chiesa!” C’è una ragione, le cupole dei due campanili sono state tolte negli anni 1960 quindi oggi la gente dice che è una chiesa bizantina che è diventata toscana, ma immaginatela con le sue cupole e lei  ridiventa bizantina. Io l’ho raccontato in diversi post, ma il Moulleau si è completamente lasciato andare nel 1910 con l’arrivo del viveur italiano, Gabriele d’Annunzio, che ci è vissuto fino al 1915. Ci vuole immaginare il poeta intrappolato al Mouleau per sfuggire ai suoi creditori italiani e parigini. Cos’è il Mouleau all’epoca di d’Annunzio? una ventina di chalet (il nome che si dà ad Arcachon ai palazzi e alle case), il Grand-Hôtel, la chiesa bizantina e il convento dei domenicani, il Molo e i due sanatori per i tubercolosi. Insomma un posto dove la gente viene per morire. Meno male che c’erano tutte le donne dei ricchi industriali e le loro figlie da sedurre e poi i casinò di Arcachon si sono avvicinati con l’arrivo del tramway al Moulleau nel 1911 quindi l’amico italiano è riuscito più o meno a sopravvivere. Esco dalla chiesa e imbocco l’avenue Saint-Dominique per scendere la duna. Non è difficile di immaginare il poeta passeggiare tra le dune con i suoi tre levrieri bianchi. Passo davanti la villa Caritas dove ha vissuto l’italiano. Le persiane della villa sono chiuse. È in questa villa che il poeta ha scritto la Leda senza Cigno e il martiro di San Sebastiano per la ballerina Ida Rubinstein con la collaborazione di Claude Debussy. Continuo la mia passeggiata e, ai piedi della duna, prendo il viale Gabriele d’Annunzio, passo davanti la villa Saint-Dominique al numero 25 che è oggi un’altra di quella dove ha vissuto d’Annunzio con la pittrice americana Romaine Brooks. Cammino fino al monumento che raffigura il busto del poeta e che è al riparo sotto una splendida mimosa in fiore. Ah le fragranze delle mimose del Bacino di Arcachon in gennaio e febbraio talmente forti che eclissano gli odori dell’oceano. Mentre torno indietro per dirigermi verso il molo, noto i passanti che non esitano a raccogliere mazzi di mimose in giardini che appartengono ad altri. Forse loro non sono di Arcachon e non sanno che le loro mimose cominceranno ad appassire già prima di aver raggiunto il molo. Ci sono persone che prendono il caffè alla terrazza del Grand-Hôtel. Noto che il vecchio cannone tutto arrugginito è sempre al suo posto davanti al molo. Il suo gemello è sull’altro sponda in un paesello sulla strada del Cap-Ferret che si chiama appunto Le Canon. Si dice che sono relitti di una vecchia fortezza che sorgeva al posto della chiesa bizantina nel XVIII secolo e che proteggeva gli stretti del Bacino di Arcachon da un’ipotetica invasione inglese. Sul molo, osservo gli appassionati di kitsurfing che cavalcano le onde. A sinistra, davanti alla duna del Pilat, avvolta da una nebbia di calore, c’è una grossa nave che sta lavorando a dragare lo stretto sud e che sputa tonnellate di sabbia verso la riva. Una volta, ai tempi di d’Annunzio, non c’era l’Oceano come oggi davanti al Mouleau e ci voleva andare in spiaggia con gli orari delle maree in tasca per essere sicuro di trovarlo. Guardo una plate (il nome della barca da lavoro usata dagli allevatori di ostriche) tornare dal banco di Arguin verso il suo porto. È tempo per me di tornare a casa. Mentre mi allontano dal molo, guardo indietro e vedo una coppia che sta passeggiando con un levriero…

Breve storia del pirata dei Caraibi più famoso della Storia.

Ascia di arrembaggio di un corsaro verso 1810

Nel settecento, Bordeaux era il secondo porto del Mondo e solo quello di Londra lo sorpassava. Allora i magazzini portuali traboccavano di merci: caffè, zucchero, cottone, rum, spezie in provenienza delle Antille che venivano rispedite in tutta l’Europa. I negozianti e gli armatori bordolesi si arricchivano vendendo derrate alimentari di base nelle Colonie e comprando produzioni coloniali. E come volevano arricchirsi sempre di più con la richiesta di zucchero che non smetteva mai di aumentare in Europa, sono diventati mercanti di carne umana andando a cercare manodopera gratis in Africa per le piantagioni di cottone o di canna da zucchero che loro possedevano a Santo Domingo e in tutte le Antille. E non c’è una famiglia bordolese che non sia stata coinvolta nel commercio triangolare. I soldi grondavano tanto su Bordeaux che è durante quel periodo che i negozianti e gli armatori bordolesi si sono decisi a radere al suolo la Bordeaux medievale per costruirne una nuova di zecca, una splendente, quella che abbiamo oggi. Poi tutti questi negozianti e armatori bordolesi esercitavano un altro mestiere, quello di corsaro. E Bordeaux fu nel settecento la più grande città corsara di Francia. Pensate che, durante l’anno 1755, c’erano più di 500 navi corsare che ormeggiavano davanti a Bordeaux. Corsaro è sinonimo di pirata, solo che è un’attività ufficiale, riconosciuta dallo Stato che riceve una percentuale del bottino mentre il pirata lavora per conto suo e non vuole versare un pizzo allo Stato. È la sola differenza. Per il resto che un negoziante abbia la sua nave catturata da una nave corsara o pirata, il risultato è lo stesso: la merce è persa e ci vuole pagare un riscatto per ricuperare la nave. Dunque a Bordeaux, il più legalmente del mondo, i negozianti e gli armatori erano anche corsari perché impadronirsi di una nave di commercio inglese o spagnola è un’attività pericolosa ma lucrativa e l’investimento è minimo. È in quell’Età dell’oro a Bordeaux del commercio coloniale, della tratta degli schiavi e della pirateria che nasce, nel 1782, in una famiglia di negozianti bordolesi, Jean Lafitte. Non si sa niente della sua gioventù. Nel 1794, sotto il Terrore, lui avrebbe lasciato Bordeaux e la Francia per raggiungere il fratello, Pierre, che scorrazzava già, da qualche anno, in lungo e in largo sul mare caraibico tra Santo Domingo e Cuba. C’erano molti negozianti bordolesi che possedevano delle piantagioni a Santo Domingo. Dunque, insieme al fratello, Jean si mette a fare il pirata o il corsaro secondo i punti di vista. Ora siamo nel 1803, poco dopo la vendita della Louisiana, che era molto più vasta di quella di oggi agli Stati Uniti dal maledetto corso Napoleone. I due fratelli si sistemano a Barataria (baraterie in francese designa una froda commessa dall’equipaggio di una nave al danno dell’armatore) nel Sud-Est di New Orleans. Immaginate un paese di bayou, di caldo tropicale, di zanzare; immaginate i fondi delle paludi pestilenziali brulicanti di alligatori del delta del Mississippi; immaginate i pesci gatti giganti capaci di inghiottire uomini e alligatori. È in quel paradiso che Jean Lafitte decide di fondare addirittura il suo proprio reame approfittando del vuoto giuridico generato dalla cessione della Louisiana. Nel 1810 è proclamata la “Repubblica di Barataria” da Jean Lafitte che non riconosce nessun autorità che sia americana, francese oppure spagnola. Le paludi impenetrabili di Barataria è il covo ideale per Jean Lafitte e la sua ciurma che possono  così lanciare le loro operazioni di bracconaggio nelle acque del Golfo del Messico senza essere disturbati. Jean Lafitte, in buon negoziante bordolese, vive di commercio cioè che lui attacca le navi spagnole e inglesi e si impadronisce delle loro merci.  È tutto l’arte del pirata oppure del corsaro di riuscire a farlo senza provocare troppo danni alle merci e alle navi. Notate che dal punto di vista francese, Lafitte è un corsero quindi un onesto negoziante perché la Francia è in guerra con la Spagna e l’Inghilterra; ovviamente per i negozianti spagnoli e inglesi, Lafitte è un volgare pirata….

Sciabola di arrembaggio di un corsaro verso 1810

…Un’altra fonte importante di reddito per Jean Lafitte è di catturare le navi negriere e di rivendere i neri ai proprietari delle piantagioni di cottone o di canna da zucchero di New Orleans. Tutti ci guadagnano perché ovviamente Jean Lafitte non paga tasse o diritti di doganali presso l’amministrazione americana e può rivendere le sue merci a un prezzo basso. Dunque Jean Lafitte è molto popolare presso i negozianti francesi e americani di New Orleans che vengono approvvigionarsi in merci di ogni genere negli immensi magazzini nascosti sugli isolotti di Barataria, Grande-Terre e Grande-Île. Dieci anni più tardi, la situazione è cambiato radicalmente e il governatore americano della Louisiana, William Claiborne, vuole mettere un termine alle attività illegali dei fratelli Lafitte e fa imprigionare Pierre che si occupa di spacciare le merci dei pirati e che riesce a evadere. Poi William Claiborne ha l’idea di fare affiggere dei manifesti che promettono una ricompensa di 500 dollari per la cattura di Jean Lafitte. Quell’ultimo, apprendo la notizia, in buon guascone, fa coprire i muri di manifesti che essi offrono 1500 dollari per l’arresto del governatore Claiborne. Claiborne deve fronteggiare il malcontento della popolazione di New Orleans che, in stragrande maggioranza francese, non ha accettato affatto la vendita della Louisiana agli Stati Uniti e ha preso la difesa di Jean Lafitte. Il pirata riunisce, come al solito, i suoi amici e alleati nella sua casa di New Orleans che è anche un Caffè, via Bourbon al numero 941 (la casa esiste ancora oggi ed è sempre un bar) dove lui gestisce i suoi affari e loro evocano la situazione che sta peggiorando per la “Repubblica di Barataria”. Ma non c’è più niente da salvare perché la festa è finita e le autorità americane non vogliono più tollerare gli atti di pirateria di Jean Lafitte. Il 16 settembre 1814, Claiborne dà l’ordine alle cannoniere americane di bombardare i magazzini di Barataria. I pirati, in maggioranza americani, ulcerati, si rifiutano di sparare con il cannone sui loro compatrioti e prendono il largo con i fratelli Lafitte. Nel fra tempo, in 1812, l’Inghilterra ha dichiarato la guerra agli Stati Uniti. Il 8 gennaio 1815, la battaglia infierisce tra inglesi e americani per la conquista della Louisiana, a Chalmette, nei dintorni di New-Orleans. Gli inglesi, conoscendo l’antagonismo tra Jean Lafitte e il governatore americano della Louisiana, propongono al pirata, per combattere ai loro fianchi, una forte somma di denaro e il titolo di Capitano. Il bordolese rifiute e si schiera con i suoi uomini e i suoi cannoni presi agli spagnoli sotto la bandiera americana del generale Andrew Jackson, futuro presidente degli Sati Uniti. Insieme, riescono a salvare New Orleans e fanno subire una terribile disfatta agli inglesi che perdono 2042 uomini contro solo 71 per gli americani. I pirati diventano eroi festeggiati in tutta New Orleans. Però, il generale Jackson nega a Jean Lafitte la minima compensazione per la perdita della sua “Repubblica di Barataria”. Profondamente deluso, Jean Lafitte, comunque provvisto di lettere di corsa dal governo americano, riprende il mare e torna al suo mestiere di corsaro contro le navi spagnoli. Jean Lafitte si sistema a Campeche sull’isola di Galveston, al largo delle coste texane. Una leggenda dice che, nel 1821, Jean Lafitte avrebbe partecipato a un complotto per fare evadere il cretino corso allora prigioniero degli inglesi sull’isola di Sant’Elena, quando gli cade addosso la notizia della morte di Napoleone. Alla fine dell’anno 1821, ricomincia la stessa storia di quella della “Repubblica di Barataria” e le autorità americane danno l’ordine di attaccare il covo di Jean Lafitte. Sentendosi in inferiorità, il pirata incendia Campeche e si dà alla fuga. I due fratelli si sistemano allora in Messico a Islas Mujeres. Pierre muore poco dopo. Per quanto riguarda Jean, dato per morto una decina di volte, si perde la sua traccia nel 1822 dopo la sua evasione del carcere di Puerto Principe a Cuba. C’è una storia inverosimile che dice che Lafitte sarebbe tornato a Bordeaux e avrebbe comprato uno château. Secondo questa stessa leggenda, nel 1847, Jean Lafitte si sarebbe proclamato rivoluzionario perché, durante un soggiorno a Bruxelles, Lafitte sarebbe diventato l’amico di Karl Marx e avrebbe addirittura finanziato la pubblicazione del manifesto del Partito Comunista. Poi Jean Lafitte sarebbe decesso nel 1858 nei dintorni di Bordeaux…

Qualche tempo fa, sono andato a vedere una mostra intitolata, Bordeaux: 2000 anni di storia marittima dove ho scoperto per caso la storia di Jean Lafitte che mi era vagamente conosciuta, intrigato ho fatto qualche ricerca. Tutto quello che ho scritto succintamente nel post è vero. La cosa che non si sa (e che non si saprà mai con certezza) è la data e il luogo di nascita nonché la data e il luogo della morte di Jean Lafitte. Sul sito americano dedicato a Jean Lafitte si parla di Bordeaux o forse sarebbe il figlio di una famiglia bordolese che si sarebbe sistemata a Santo Domingo prima la rivoluzione francese poi in Louisiana. La cosa che mi convince il più per un Jean Lafitte bordolese è proprio il suo cognome che più bordolese non si  può! 😉

Oceano: I Pesci e il Cormorano.

Non sono cretini quei cormorani, mi dico, mentre li sto osservando dalla cima della duna. L’oceano si trova a solo qualche chilometro, ma loro preferiscono pescare nelle acque chiare e poco profonde dell’immenso lago di Carcans. E’ tutto uno spettacolo di vederne uno tuffarsi e risalire in superficie con un grosso pesce argento nel becco. Poi divertirsi a farlo saltare in aria da un colpo di becco prima di l’inghiottire in un lampo. Dopo due o tre rappresentazioni, l’uccello marino raggiunge lo stendibiancheria. Un pescatore si sta avvicinando seduto su una specie di ridicola sedia gonfiabile galleggiante irta di tante canne da pesca che ho l’impressione di vedere una grossa mina vagante sul lago. I cormorani lo guardano indifferenti continuando ad asciugarsi le ali e so già che i cormorani voleranno via verso Nord appena l’importuno avrà raggiunto la loro zona di pesca. I pesci devono provare sollievo, mi dico, perché sanno bene che la canna da pesca più perfezionata è inoffensiva nei confronti di un becco di cormorano. E lo sanno anche i cormorani che fra qualche ora ritorneranno sullo stendibiancheria. Mentre continuo la mia passeggiata sulla duna, mi torna in mente una fiaba di La Fontaine in cui l’autore attribuisce al cormorano una previdenza delle più intelligenti. Poveri pesci.

I Pesci e il Cormorano

Non v’era stagno in tutto il vicinato
in cui Cormorano a lungo non avesse
col suo becco pescato.
Pescaie e chiuse a lui facean la spesa
della cucina allegramente bene,
ma quando nelle vene
per vecchiezza gelò nell’animale
il sangue, l’andò male.
Ogni Cormorano si serve da se stesso
e il nostro, mezzo cieco per l’età,
che non vedea le cose troppo chiare
e reti non aveva per pescare,
si trovò presto in gran difficoltà.

Il bisognin dottore in strategia
insegna all’uccellaccio
una maniera per uscir d’impaccio.
Rivolgendosi a un Gambero di fiume vicino:
– Amico, – gli parlò, – non ti rincresca
a dire a questi Pesci che il padrone
vuol fare una gran pesca
e che segnato è l’ultimo destino -.

Lesto si muove il Gambero di fiume
e porta l’ambasciata,
onde turbato il popolo
dei Pesci si raduna e manda a chiedere
a messere Cormorano ove ha pescato
la terribil notizia.
Chi l’ha portata? quali son le prove?
E se non è fandonia
come salvarsi e dove?

– Bisogna cangiar luogo, ecco il rimedio.
– Sta ben, ma in qual maniera?
– Se credete, vi porto a una scogliera
dove abito di solito,
luogo sicuro che non sa che Dio
che esista al mondo ed io.
Colla sua man vi fece la Natura
un golfo ove non passa un’ombra umana.
Dei pesci la repubblica
in quella spiaggia inospite e lontana
potrà viver sicura -.

Ad uno ad un il Cormorano
i suoi Pesci portò,
e nel rinchiuso albergo,
ove il luogo è disteso e l’acqua limpida,
da buon padre i suoi figli imprigionò.
Ad un ad un li pesca allegramente
e insegna a loro spese
che non bisogna credere
a chi mangia la gente.

Se non era il Cormorano, si assicura
che altri n’avrebber fatta una frittura:
e per i Pesci il caso è indifferente.

In cui il lettore scoprirà il Greuil che è una ricotta tradizionale del Sudovest della Francia.

Forse non ci crederete, ma una volta il Médoc – non quello del vino, l’altro – era un Paese di pastori. Poi la foresta ha conquistato tutte le lande e i pastori sono diventati coltivatori di pini marittimi e resinai. Oggi, c’è ancora qualche pastore nel Médoc, ma loro si contano sulle dita di una mano. Quando ero adolescente, mia zia era andata a sistemarsi in un paesello del Médoc e, a due passi, c’era uno di quei pastori con il suo gregge di pecore che aveva i pascoli di una proprietà vitivinicola a mezzadria. La sera era tutto uno spettacolo di vedere il cane uscire dalla casa e filare a tutta birra nei campi per raggruppare le pecore e riportarle all’ovile. Faceva tutto da solo questo cane e faceva camminare il suo regimento di trecento pecore su un bel pezzo di strada provinciale. Puntuale come un orologio svizzero questo cane e gli automobilisti lo sapevano ed evitavano come il diavolo di ritrovarsi sulla strada provinciale durante questa micro transumanza: “è l’ora del cane” loro sospiravano. L’anno scorso, ho saputo che un giovane pastore si era sistemato in un’antica fattoria in un paese del Médoc non lontano da casa mia. E bene figuratevi che questo pastore è il figlio del pastore che aveva l’ovile nel paesello di mia zia. Il comune dove lui vive ha fatto ristrutturare un vasto ovile per il suo gregge di trecento pecore di razza basco-béarnaise e gli ha dato in affitto delle terre in riva alla Garonna. Una caseificio è stato sistemato a ridosso dell’ovile e il giovane pastore con la moglie fanno il loro formaggio e lo vendono tre giorni per settimana. Fanno una straordinaria toma dei Pirenei e cosa si può fare di altro con delle pecore basco-béarnaise! Io non credo di aver mai mangiato una toma migliore della loro. È che sono coccolate queste pecore! Da luglio a settembre, il gregge è spostato negli alpeggi estivi dei Pirenei. Su in vacanze le pecore! In cura termale al lago de L’hurs sopra Lescun. E non come una volta dove gli antichi pastori dovevano fare camminare i greggi dal Médoc fino ai Pirenei. In veicolo per bestiame le signorine con tutte le comodità moderne! Quando le pecore sono nei Pirenei, la moglie del pastore ha pietà di noi, i drogati della toma, e scende dalla montagna, una volta per settimana, per venire fino a Bordeaux e aprire il caseificio. Che Santa donna! Dunque come lo dicevo il giovane pastore fa soltanto la toma dei Pirenei e qualche volta abbiamo diritto al Greuil che è una specialità tipica del Sudovest della Francia. È qualcosa che si trova solo in inverno quando le pecore ricominciano a fare del latte e in primavera verso Pasqua e qualche volta i pastori che trascorrano l’estate nelle montagne dei Pirenei ne fanno un po’. Comunque non cercate il Greuil nei supermercati perché è una roba che si trova solo su qualche mercato presso i piccoli produttori di formaggio e io sono molto fortunato di aver un pastore che fa del Greuil a qualche chilometro da casa mia. Quindi in questo momento c’è il greuil che è l’equivalente più o meno della ricotta in Italia. Io apprezzo solo il Greuil fatto con il latte di pecore, ma esistono Greuil fatti con latte di mucca o di capra, ma non è affatto la stessa cosa perché sono Greuil abbastanza neutri. C’è una differenza e, credetemi, quando mangiate del Greuil di pecore, avete gli aromi animali del latte di pecore in bocca e sapete esattemente cosa state mangiando. Greuil deriva dalla parola guascone grulh che significa “piccolo grumo”. Ovviamente ogni pastore ha i suoi segreti di lavorazione e tutti i greuil sono diversi da un pastore all’altro. Comunque la base è sempre la stessa. Dopo la fabbricazione della toma, il pastore ricupera il petit-lait (il serio del latte) che viene messo in un calderone. Poi Si fa riscaldare il serio a una temperatura vicina al punto di ebollizione. Dopo circa un quarto d’ora, la caseina che aveva resistito all’azione del caglio si coagula e scende nel fondo del calderone. Sappiamo di questa coagulazione perché si forma alla superficie delle bolle gassose che vengono chiamati “occhi”. Ci sono dei pastori che smettono di scaldare il serio al primo occhio, altri al secondo e ancora altri quando appare il terzo occhio. Insomma ci sono diverse scuole. Poi si fa raffreddare il calderone per due o tre ore. La materia bianca allora che galleggia in superficie, in forma di fiocchi, viene raccolta con una schiumaiola e posta all’interno di un telo piegato a forma di borsa dove il Greuil gocciolerà e si agglomererà per diverse ore. Il Greuil è un formaggio dalla consistenza soda e dalla grana fine, abbastanza untuoso e grasso. Si consuma fresco e quando ne comprate dovete mangiarlo subito perché non si conserva più di una settimana in frigorifero. Ho scritto che era anche un formaggio forte che sa di pecore. Quindi di solito non si mangia al naturale ma con qualcosa di dolce o di salato. Per esempio in dessert, potete mangiarlo con della confettura di mirtillo, di ciliegie, del miele, dello zucchero…ecc. Poi se volete mangiarlo con qualcosa di salato, potete provare l’erba cipollina oppure un trito di cipolla. Una volta, i pastori nelle montagne dei Pirenei abbinavano il Greuil con un caffè molto forte oppure con un bicchiere di armagnac zuccherato. Non c’è niente di meglio per affrontare una giornata di lavoro!

 

Pensando a Francesca, vi faccio quasi una torta al cioccolato tipicamente francese!

Già questa ricetta di torta al cioccolato tipicamente francese che mi ha dato Francesca, passando tra le mie mani, è diventata una ricetta di tartellette al cioccolato tipicamente francese. Non andate a pensare che ho voluto fare prova di originalità! La triste verità è che ho perso il mio stampo crostata! E se mi chiedete come fa un francese per perdere uno stampo crostata? Aspettate che ritrovo la mia fottuta leccarda da forno e vi rispondo! Sono francese quindi abbastanza disordinato. Tutto qui. Un’altra cosa diversa della ricetta di Francesca, è la pasta frolla sabbiosa perché ho fatto la mia ricetta facile facile di pasta frolla che è sempre la stessa. D’accordo! Lo confesso questa volta non era lo stampo, ma la vaniglia e le uova che hanno probabilmente traslocato tra Natale e Capodanno! Ma comunque ci sarà la ricetta della pasta sabbiosa di Francesca alla fine del post. Credo siano i soli cambiamenti. Notate ancora che avete bisogno di uno stampo crostata 18-20 cm di diametro, se volete fare una torta e non delle tartellette. Grazie Francesca per la ricetta!

Per la pasta sabbiosa:

  • 250 gr di farina
  • 190 gr di burro
  • 5 cl di latte intero
  • 1 pizzico di sale

Versate la farina in una ciotola e aggiungete i 190 gr di burro a pezzi. Poi, con la punta delle dita mischiate velocemente il burro con la farina. Frullate l’impasto fino ad ottenere una consistenza friabile. Non troppo e sempre con la mano leggera, altrimenti rischierete di bruciare l’impasto! Quando la pasta è abbastanza friabile, fate un pozzo nel mezzo e aggiungete il latte e il pizzico di sale. Mescolate con la punta delle dita facendo velocemente dei  movimenti circolari. Non dovete impastare per non sviluppare il glutine che farebbe indurire la pasta durante la cottura.

Mettete la pasta sabbiosa sul piano di lavoro. Ripiegatela e schiacciatela un paio di volte con il palmo della mano. In francese c’è un verbo per designare l’operazione: fraiser (e le fragole non c’entrano!). Formate una palla, poi spianate subito la pasta con il mattarello e mettetela  in pellicola trasparente, poi in frigofero. Lasciate riposare per circa 45 minuti.

Mettete la pasta su un foglio di carta da forno infarinato e stendetela con il mattarello. tagliate dei cerchi di pasta e foderate gli stampini per tartellette. Cottura in bianco per circa 15 minuti a 180 gradi (dipende dal vostro forno).

Una ganache nel gergo della pasticceria francese designa una crema a base di cioccolato e di panna acida. Non so se c’è un rapporto con l’italiano ganascia. Invece l’italiano ganascia ha dato ganache che designa in francese sia la zona mandibolare e mascellare del cavallo sia un imbecille quando dite di qualcuno che lui è una ganache. I misteri della lingua francese! Per la ganache avete bisogno di:

  • 250 gr di panna acida
  • 25 gr di zucchero
  • 200 gr di cioccolato
  • 1 cucchiaino di cannella
  • 50 gr di burro

Versate la panna acida, lo zucchero e la cannella in una casseruola. Mescolate su fuoco dolce. aggiungete il cioccolato tritato. continuate a mescolare. Lisciate bene la preparazione.

Fuori dal fuoco, aggiungete il burro tagliato a pezzi. Mescolate.

Versate la preparazione sui fondi di tartellette raffreddati. Lasciate raffreddare 20 minuti in frigofero. Buon appetito!

La pasta sabbiosa di Francesca:

  • 200 gr di farina
  • 100 gr di zucchero
  • 125 gr di burro
  • 2 tuorli
  • la metà di una bacca di vaniglia
  • 1 pizzico di sale

In una ciotola, versate lo zucchero, i tuorli e il sale. Aggiungete i semi della bacca di vaniglia. Lavorate la preparazione fino ad ottenere un composto bene spumoso. In francese c’è un verbo per questa operazione e si parla di “blanchir”. Incorporate la farina setacciata. Mescolate prima con una spatola poi con le dita fino a ottenere una pasta friabile. Fate un pozzo nel mezzo. Aggiungete dentro il burro tagliato a pezzi e lavorate velocemente la pasta senza impastare.  Ripiegatela e schiacciatela un paio di volte con il palmo della mano.  Formate una palla, poi spianate subito la pasta con il mattarello e mettetela  in pellicola trasparente in frigofero. Lasciate riposare per circa 30 minuti.