Claude Monet. Capanna dei doganieri, effetto di pomeriggio. 1882. Museo Nazionale delle Dogane. Piazza della Borsa. BORDEAUX
È un giorno d’estate a Varengeville-sur-Mer in Normandia. Sto camminando verso la chiesa di Saint-Valéry e il suo cimitero marino dove riposa il pittore Georges Braque. Non ho nemmeno uno sguardo per il bosco dei Moutiers – eppure si dice che è il più bel giardino di Francia – tanto ho fame di scoprire le falesie d’Ailly, la Costa d’Alabastro e la Manica. Ho fretta di essere lassù tra le brughiere e i giunchi di mare a contemplare il mare che canta battendo le scoglie. Ho forse sarà bassa marea, non mi sono troppo informato prima di partire. È la stessa cosa quando sono tra le mie dune del Médoc, le ho salite un miliardo di volte eppure quando raggiungo le loro vette e che vedo l’oceano, mi meraviglio ancora come un bambino che scopre l’oceano per la prima volta. Ho portato con me un ombrello perché non ho fiducia in queste nuvole nere che corrono verso di me dall’Inghilterra. Meglio essere prudente. D’altronde qualcuno mi ha detto, orgogliosamente, che qui il tempo non smette mai di cambiare di umore da un attimo all’altro e che questi mutamenti sono tanto veloci che, talvolta, piove a secchie e fa un terribile sole allo stesso tempo. Non ci credo per il sole, ma non posso dargli torto conoscendo la fama della Normandia per quanto riguarda la pioggia. Una volta sull’orlo delle falesie, osservo i rifletti del mare che non sono troppo diversi di quelli del mio caro Oceano Atlantico. Invece quello che mi sorprende è il frastuono provocato dai milioni di ciottoli che urtano le falesie. Anche nel mio Médoc c’è guerra tra l’oceano e la costa, ma è una guerra silenziosa e insidiosa in qualche modo. Guardo a destra verso Dieppe nel lontano e tiro dalla mia tasca un pezzo di carta dove ho notato due righe scritte da Claude Monet ad Alice Hoschedé durante il suo primo soggiorno a Varengeville tra febbraio e aprile 1882: “Il paese è bello e rimpiango di non esserci venuto invece di perdere il mio tempo a Dieppe. Non si può essere più vicino al mare che io lo sono, sul ciottolo stesso, e le onde battono i piedi della casa”. Cammino verso la destra fino alla gola dei Moutiers. Una valleuse come si dice qui per designare queste brecce nelle falesie che permettono di scendere fino alla spiaggia. Sono al posto esatto dove Claude Monet ha dipinto la capanna dei doganieri, un giorno dell’estate 1882. Quasi posso vedere la sua ombra di gigante arrivare da Pourville dove lui affitta la villa Juliette con Alice Hoschedé, trasportando tutta la sua attrezzatura, camminando imprudentemente lungo le falesie, gli occhi al cielo, sperando che questa fottuta pioggia normanna non venga una nuova volta rovinare il suo lavoro del giorno. Monet sistema il suo cavalletto e si mette a catturare sulla tela, a gesto veloce, i cambiamenti perpetui di luce e le variazioni dell’atmosfera che lui è venuto a cercare. Finalmente, un po’ di tranquillità per dimenticare i guai che gli piovono addosso: La morte di Camille due anni prima, i creditori che lo perseguitano, il marito di Alice che non ha più uno quattrino per mantenere Alice ei figli, Alice che sta dubitando dei sentimenti di Monet per lei. Ci vuole dipingere. Tanto. Il mare, la casa dei doganieri, la scogliera, la chiesa di Varengeville, la punta del piccolo Ailly. Organizzare una mostra a Parigi e sperare nella vendita di qualche tela per rimettersi a galla. Osservo il dipinto e questa casa dei doganieri sotto il sole di una bellissima giornata d’estate. La immagino in inverno, i giorni di tempesta, accerchiata dal mare di un lato e dalla lande rocciosa di un altro; la immagino tremante sotto gli assalti del vento, accerchiata dall’ostilità della gente di questo paese di niente. La immagino con dentro due doganieri estenuati, che hanno passato una settimana a rischiare la pelle esplorando ogni buco ai piedi delle falesie alla ricerca di merci di contrabbando. Li immagino lottare contro la gente del paese che accendono fuochi, la notte, sulle falesie, per fare naufragare le navi. Mi fa tanto pensare al mio Médoc di una volta questo dipinto. Devo smettere perché è solo una vecchia capanna che riscalda le sue vecchie ossa al sole per una bellissima giornata d’estate. Esco dal museo delle dogane. Ho fatto bene di portare un ombrello, piove a secchie sulla piazza della Borsa di Bordeaux. Non ho uno sguardo per le Tre Grazie tanto ho fretta di ritrovarmi in un bar sui moli per prendere un caffè con un bicchierino di Calva….
Peccato che il post sul giornalismo (E se l’estate fosse inverno…) non si apre. So già che mi avrebbe fatto venire le lacrime agli occhi!
m.
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Bentornata mia cara Monica! Non puoi immaginare quanto mi mancavi! Quasi da smettere di pubblicare fino al tuo ritorno. Per dire. 😉
Ho avuto un problema tecnico con questo post. Ecco il testo sotto:
E se l’estate fosse in inverno, si risparmierebbe sulla bolletta del gas!
Il titolo è una frase che dice mia madre quando lei vede un servizio televisivo dove un giornalista le racconta della neve o del gelo in inverno. In francese, c’è un nome per designare tutti quei articoli ammuffiti che si leggono sui giornali e che tornano ogni anno o tutti quei servizi marci che si vedono in televisione sempre alle stesse date: Gli ippocastani. Gli ippocastani giornalistici sono il gelo e la neve in inverno, la canicola in estate, le allergie in primavera, i cioccolatini a San Valentino, la migliore torta mimosa dell’8 marzo, il dilemma panettone o pandoro per Natale, i migliori presepi d’Italia, la prova costume, le tracce della maturità, i primo giorno di scuola, il vaccino antinfluenzale, l’esodo estivo e gli ingorghi stradali, i rincari delle bollette in settembre, il nuovo smartphone di Apple….ecc. Cosa c’entra l’ippocastano con le banalità giornalistiche? Ci vuole risalire fino alla Rivoluzione francese dove molte guardie svizzere furono uccise al Palazzo delle Tuileries durante la famosa giornata del 10 agosto 1792 e seppellite sotto un grosso ippocastano a fiori rossi. Ogni anno, ovviamente, l’albero fioriva sopra le tombe e, ogni anno, tutti i giornali di Francia, al momento della fioritura dell’albero, pubblicavano articoli che ricordavano questa giornata del 10 agosto. Gli uni per rallegrarsi del massacro degli svizzeri, gli altri per rimpiangerlo. Poi i morti svizzeri sono caduti nel dimenticatoio e i giornalisti, che siano di sinistra o di destra, ogni anno, si sono messi a scrivere solo della bellissima fioritura dell’ippocastano in maggio 😉
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E tutto per degli svizzeri !?! 🙂
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Si, quando i giornali francesi scrivono in ottobre, come ogni anno, dell’ultima famiglia di viticoltori che sta ancora pigiando l’uva con i piedi, è colpa degli svizzeri!!!
Buona sera, mia cara Monica!!!
Alex
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