In aprile, nella lande, le infiorescenze rosse di milioni di pini scoppiano sotto il morso del sole e liberano nel vento nuvole di polverine colore zolfo. Per due settimana, è come una pioggia d’oro profumata di miele e di resina che ci porta l’oceano e che incipria assolutamente tutto: case, laghi, cammini, pozzanghere, vestiti, capelli, distese di brughiere… Il suolo è letteralmente incipriato d’oro. Dove abito fioriscono sui bordi delle strade degli altari votivi accanto ad alberi, ringhiere di ponte, pali elettrici, muri, fossi. Quegli altari sono pieni di foto, di lastre sepolcrali, di croci, di fiori di plastica, di famiglie che chiedono a San Cristoforo oppure a Ermes di intercedere per il figlio morto in un incidente stradale in quel posto. All’inizio, c’era un altare scappato dal cimitero, poi due, quattro, dieci, cento; all’inizio l’altare era un semplice mazzo di fiori, ora abbiamo addirittura dei templi. Sono nuovi luoghi di culto che per certe famiglie hanno sostituito i cimiteri. Nel cuore di una pineta del Paese della Sabbia, mentre, come un bambino, mi diverto a calpestare le foglie secche per inzolfare le mie scarpe di polline, uno strano bagliore nero tra le foglie attira il mio sguardo. Mi inchino per capire di cosa si tratta. Un’impossibilità geologica. Un mucchio di pietre di ossidiana in mezzo agi asfodeli che stanno per fiorire. Allora capisco che si tratta di un vecchio altare e che qualcuno, ormai dimenticato di tutti, è morto là. Mi metto a sbarazzare delicatamente le foglie e i rametti che ricoprono le ossidiane, le pulisco come posso. Appena mi rialzo che già le ossidiane si inzolfano….