Ma non si farebbero delle seghe mentali i fan di Leonardo da Vinci?

Léonard de Vinci è un calembour in francese che non funziona in italiano: C’est en sciant que Léonard de Vinci! (È segando che Leonard diventò sega). Dunque sono andato a vedere una mostra dedicata al famoso Léonard e al volo in un paesello sull’Atlantico e sono rimasto stupito davanti a un disegno che raffigura qualcosa che si chiama Vite aerea e che sarebbe, secondo il cartello, l’antenato dell’elicottero moderno. Eh, i fan di Léonard! Voglio bene credere a tutto, ma anche io ho le mie limiti! Smettete un po’ di farvi delle seghe mentali! Avete già visto un elicottero? Al massimo, dopo una sbornia, il toscano ha disegnato l’incrocio tra una vite o una scala a chiocciola e una specie di cyclette da camera. Caspita, se non fosse una macchina del padre della Gioconda, la macchina farebbe ridere e sarebbe stata bocciata ovunque, anche al concorso Lépine di Parigi eppure loro accettano solo le invenzioni degli inventori più strampalati del Mondo! 😉

In cui l’autore vi racconta la storia di uno scandaloso dipinto di Gustave Courbet che non vedrete mai!

Ah Gustave Courbet! Il grosso Courbet, il pantagruelico Courbet. Il massacratore di tutti gli ipocriti,  bigotti, moralizzatori da strapazzo e benpensanti. Courbet, il vanitoso, il chiassoso, il burlone; il tizio che ce l’aveva con tutti i “pisciafreddo” di Francia. Courbet lo scandaloso, l’assettato di gloria, il pittore pronto a tutto per prendere a pedate il pubblico bovino della pittura. Courbet, il generoso, il rosso, il pittore naturalista, l’anticlericale, il pittore degli zoccoli dei contadini, il socialista…

Stampa del Ritorno dalla Conferenza, dipinto di Gustave Courbet distrutto nei primi anni del XX secolo.

Corre l’anno 1862. Courbet ha un piano segreto, l’idea di un nuovo soggetto, di una nuova composizione che dovrebbe fare di lui l’epicentro di un ennesimo scandalo dalle proporzioni monumentali. Parigi deprime, Courbet è scomparso e senza il tonitruante nativo di Ornans e il putiferio che scatta ognuno dei suoi dipinti socialisti, senza i suoi libelli, senza la sua persona stessa che splende come un astro, Parigi cade in una noia mortale; anche la stampa reazionaria che passa il suo tempo a denigrarlo non vende più niente e lo rimpiange. Mentre tutto Parigi si chiede che fine ha fatto l’artista, Courbet, lui, se la spassa in provincia, a Saintes, al castello di Rochemont dal suo amico e mecenate, Étienne Baudry. Courbet ha bisogno di discrezione per dipingere la tela che dovrebbe scattare il più grande scandalo al Salon del 1863. Che Courbet abbia fomentato e preparato in segreto questa carica anticlericale lo sappiamo dalla sua corrispondenza dove lui gode già in anticipo della buffoneria: “lavoro qui perché non voglio nessuna indiscrezione, conosco Parigi. Arriverò con il dipinto già pronto. Lo presenterò al Salon. Come la gente urlerà. Ah! Ah! Ah! Che scandalo, ragazzi, che scandalo!” Courbet svela che il dipinto sarà “critico” e “comico” tanto che sarà il più grottesco di tutta la storia della pittura e che, d’altronde, solo a raccontarne il soggetto agli abitanti di Saintes, loro crepano dal ridere. Ovviamente Courbet vive in un periodo dove “le forbici d’Anastasia” (la censura in francese) tagliano senza tregua, e diciamo che lo scopo di Courbet è doppio: misurare le limiti della sua libertà artistica e, diciamolo anche, farsi un sacco di soldi con il dipinto. Ma torniamo a Courbet che prolunga il suo soggiorno a Saintes tanto la città e la regione gli piace. Courbet dipinge la campagna di Saintes, il fiume Charente, fa ritratti e nudi delle sue amanti occasionali e gode della buona tavola di Baudry. Courbet lavora anche al suo dipinto che deve essere presentato al Salon del 1863 e che si chiamerà: Ritorno dalla Conferenza. Courbet non cede alla facilità con un tema erotico come i suoi colleghi, il pittore ha scelto di dipingere una scena anticlericale per mettere i burloni nel suo campo. Il dipinto si spiega da solo: sulla strada di Ornans, al ritorno dalla conferenza ecclesiastica del lunedì, quegli ipocriti di curati del decanato, che predicano, ogni giorno, la sobrietà e la temperanza, sono ubriachi fradici e sono presi in giro dai parrocchiani che si dicono che i tizi, loro, non bevono solo vino di messa. Nell’albero, in una nicchia, una madonnina osserva la scena. Courbet non vuole commettere il dipinto dal suo mecenate e fa una cosa divertente che mostra come Courbet è di una natura scherzosa. Dunque il pittore chiede al direttore delle scuderie imperiali di Saintes, una stanza per dipingere il suo quadro che fa dieci piedi (l’equivalente in grandezza dei suoi capolavori più conosciuti Funerale a Ornans e L’atelier del pittore). Il direttore accetta, pensate, Courbet, il pittore è alla vetta della sua carriera. E Courbet comincia a lavorare al suo dipinto anticlericale nella tana dell’imperatore dei bigotti, Napoleone III detto il piccolo. Che buffonata. Poi, viene un dubbio al direttore che chiede di vedere la bozza del dipinto e si mette a supplicare Courbet di portare via il quadro perché non si tratta precisamente di una parata di cavalli. Courbet non ha difficoltà a trovare una nuova casa visto che Saintes è un focolaio dell’anticlericalismo in Francia. Dunque il quadro è traslocato di notte dal vecchio Faure, il nocchiere del Porto-Berteau, che affitta una camera a Courbet al primo piano della sua casa. Courbet è un inquilino che fa delle strane domande. Per esempio, lui chiede al vecchio Faure, un abito talare e soprattutto un asino grigio da sistemare nella camera. Immaginate un po’ l’impresa per fare salire l’asino al primo piano! Comunque sia Courbet si mette al lavoro e Ritorno dalla Conferenza è presentato al Salon del 1863 e rispedito subito a Courbet per oltraggio alla morale religiosa, poi respinto ugualmente dalla giuria del Salon dei Rifiutati. Courbet è furioso e minaccia di dipingere Il Coucher della Conferenza (coucher ha un doppio senso in francese e qui si tratta più della scopata dei curati che del tramonto sulla Conferenza). Courbet è “furioso” anche per un’altra ragione, un altro pittore ha presentato un dipinto che supera in scandalo tutto quello che ha fatto Courbet finora. Pensate questo famoso anno 1863, è l’anno dove Edouard Manet presenta al Salon: La Colazione sull’erba. Un terremoto questo dipinto. Non pensate che Courbet si lascia abbattere dalle sorti. Ritorno dalla conferenza è esposto, via Hautefeuille, nel suo atelier dove le porte sono spalancate al publico. I parigini affluiscono per vedere il dipinto scomunicato. I partigiani di Courbet e i suoi nemici, quelli che difendono il dipinto tipo Proudhon che dichiara scherzosamente: ” l’inevitabile reazione della natura sull’ideale”; e quelli che mettono il dipinto alla gogna e promettono a Courbet l’inferno. In mezzo a tutto questo circo e queste liti, il grosso Courbet che tiene discorsi sediziosi senza dimenticare di agitare gioiosamente, come un semaforo, i mazzi di foto che lui ha fatto fare del dipinto per venderle. Ora, sono passati alcuni anni e siamo nel 1868. Il Ritorno dalla Conferenza è esposto in Belgio al Salon di Gand con una dozzina di opere di cui due libelli anticlericali di Courbet: La morte di Jeannot a Ornans e Curati. in giro. Courbet è un maestro della pubblicità quando si tratta di vantare la sua persona oppure le sue opere. Ritorno dalla Conferenza e i libelli sono esposti in una sala particolare dove la gente deve chiedere un’autorizzazione speciale per entrare. La stampa reazionaria si strangola di indignazione e più essa si strangola più la gente vuole vedere il dipinto di Courbet e comprare le foto del dipinto. L’artista vince la medaglia d’oro del Salon, ma non riesce a vendere il dipinto. Nel 1881, il dipinto riappare, dopo la morte dell’artista, in una vendita dei dipinti di Courbet all’hotel Drouot dove il quadro è comprato da un anonimo. Venti anni dopo, l’opera si ritrova dal gallerista, Georges Petit. Un giorno, tra il 1906 e il 1912, un tizio si presenta da Georges Petit e si indegna davanti al dipinto dicendo che è una cosa infame, empia, scandalosa, ma lui comunque convince Petit di vendergli il dipinto. Più tardi, Petit riceve una lettera del tizio che dichiara di essere un ultracattolico che avrebbe acquistato il dipinto solo per il piacere di potere distruggerlo. Ritorno dalla Conferenza non è mai più riapparso e ne rimane solo qualche foto e qualche stampa…

AMOUR

L’Amour prenant un papillon (Cupido gioca con una farfalla). Antoine Denis Chaudet (1763-1810). Museo del Louvre. Parigi.

Questo post è un piccolo aggiornamento del post: Per i francesi l’amore cambia di sesso al plurale! 

L’Amour trattiene una farfalla e la avvicina a una rosa. La farfalla simboleggia l’anima e la rosa il piacere. L’Amour sveglia l’anima ai sentimenti amorosi grazie al profumo della rosa. La scena porta lo spettatore a una riflessione del tormento dell’anima di fronte alle pene e ai piaceri dell’amore, che sono raffigurati sulla base della statua. Se avete l’occasione di andare al Louvre, tra due selfie con la mia vecchia zia,  Amour si trova a piano terra nell’ala Richelieu.

Un giorno d’estate sui moli di Bordeaux!

Alfred Smith (1853-1936). Il quai de la Grave a Bordeaux, 1884, olio su tela. Museo delle Belle Arti. Bordeaux.

Solo a guardare questo dipinto di Alfred Smith, esposto al museo delle Belle Arti di Bordeaux, vi accascia dal caldo. E’ una giornata afosa come quella di oggi dove il termometro raggiungerà i 40 gradi oppure li supererà allegramente. Una giornata afosa che è caratteristica delle estati africane del Sud-ovest della Francia. Di solito, Alfred Smith, dipingeva il porto, il fiume, l’oceano, ma per questo dipinto, l’artista ha scelto i tagliatori di pietre lavorando sui moli. Ci sono alcuni elementi che indicano che siamo sui moli di Bordeaux: Il campanile della basilica di Saint Michel a sinistra, il Ponte di Pietra a destra. Il colore verdastro della Garonna che scorre sotto il ponte, la curva della Luna. Di là dal ponte: i pennacchi di fumo nel cielo ci indicano che delle navi sono attraccate lungo la Borsa, i Quinconces, gli Chartrons, e che stanno aspettando il caricamento delle botti di vino. Anche dal “quai de la Grave” il pittore deve essere assalto dal profumo mefitico del vinaccio che ristagna nell’aria e che ammorba tutta la città. Una volta, le pietre calcaree estratte dalle carriere di Lormont oppure di Bourg sulla riva destra venivano trasportate in barca fino a Bordeaux. Poi, le pietre erano tagliate sul posto, appena scaricate sul molo. E’ la scena che stiamo contemplando: un tagliatore di pietre sta tagliando un blocco di calcare mentre una carretta si allontana verso il cantiere edile. Bordeaux è una città fantasma e tutti i suoi abitanti si sono rinchiusi in casa al riparo dalla morsa del caldo africano. Tutta la vita sembra concentrarsi intorno alla garitta che vediamo sul molo. Dietro il tagliatore di pietre che sta lavorando, un collega si è messo per qualche istante all’ombra, un altro con l’ansamento si è addirittura sdraiato dietro la garitta. Un terzo, un capo probabilmente, legge un giornale al riparo dal sole all’ingresso della capanna. La bianchezza del calcare e della polvere di calcare è accecante, insopportabile, come il riverbero della neve in montagna un giorno di gran sole. Un cane guarda verso la città. La basilicata fa pensare a un faro e a guardare il dipinto vi viene la voglia di rifugiarvi nella cripta della basilica di Saint Michel. La città di Bordeaux è appena schizzata a causa delle foschie di calore che sorgono dal suolo. Tre o quattro alberi patiti hanno la stessa colore verdastro del fiume. Il cielo ha perso il suo colore blu tanto è scaldato a rosso. Insomma: Una tipica giornata d’estate sui moli di Bordeaux.

Bordeaux: Piazza della Borsa dove il mare canta al sole battendo le scogliere!

Claude Monet. Capanna dei doganieri, effetto di pomeriggio. 1882. Museo Nazionale delle Dogane. Piazza della Borsa. BORDEAUX

È un giorno d’estate a Varengeville-sur-Mer in Normandia. Sto camminando verso la chiesa di Saint-Valéry e il suo cimitero marino dove riposa il pittore Georges Braque. Non ho nemmeno uno sguardo per il bosco dei Moutiers – eppure si dice che è il più bel giardino di Francia – tanto ho fame di scoprire le falesie d’Ailly, la Costa d’Alabastro e la Manica. Ho fretta di essere lassù tra le brughiere e i giunchi di mare a contemplare il mare che canta battendo le scoglie. Ho forse sarà bassa marea, non mi sono troppo informato prima di partire. È la stessa cosa quando sono tra le mie dune del Médoc, le ho salite un miliardo di volte eppure quando raggiungo le loro vette e che vedo l’oceano, mi meraviglio ancora come un bambino che scopre l’oceano per la prima volta. Ho portato con me un ombrello perché non ho fiducia in queste nuvole nere che corrono verso di me dall’Inghilterra. Meglio essere prudente. D’altronde qualcuno mi ha detto, orgogliosamente, che qui il tempo non smette mai di cambiare di umore da un attimo all’altro e che questi mutamenti sono tanto veloci che, talvolta, piove a secchie e fa un terribile sole allo stesso tempo. Non ci credo per il sole, ma non posso dargli torto conoscendo la fama della Normandia per quanto riguarda la pioggia. Una volta sull’orlo delle falesie, osservo i rifletti del mare che non sono troppo diversi di quelli del mio caro Oceano Atlantico. Invece quello che mi sorprende è il frastuono provocato dai milioni di ciottoli che urtano le falesie. Anche nel mio Médoc c’è guerra tra l’oceano e la costa, ma è una guerra silenziosa e insidiosa in qualche modo. Guardo a destra verso Dieppe nel lontano e tiro dalla mia tasca un pezzo di carta dove ho notato due righe scritte da Claude Monet ad Alice Hoschedé durante il suo primo soggiorno a Varengeville tra febbraio e aprile 1882: “Il paese è bello e rimpiango di non esserci venuto invece di perdere il mio tempo a Dieppe. Non si può essere più vicino al mare che io lo sono, sul ciottolo stesso, e le onde battono i piedi della casa”. Cammino verso la destra fino alla gola dei Moutiers. Una valleuse come si dice qui per designare queste brecce nelle falesie che permettono di scendere fino alla spiaggia. Sono al posto esatto dove Claude Monet ha dipinto la capanna dei doganieri, un giorno dell’estate 1882. Quasi posso vedere la sua ombra di gigante arrivare da Pourville dove lui affitta la villa Juliette con Alice Hoschedé, trasportando tutta la sua attrezzatura, camminando imprudentemente lungo le falesie, gli occhi al cielo, sperando che questa fottuta pioggia normanna non venga una nuova volta rovinare il suo lavoro del giorno. Monet sistema il suo cavalletto e si mette a catturare sulla tela, a gesto veloce, i cambiamenti perpetui di luce e le variazioni dell’atmosfera che lui è venuto a cercare. Finalmente, un po’ di tranquillità per dimenticare i guai che gli piovono addosso: La morte di Camille due anni prima, i creditori che lo perseguitano, il marito di Alice che non ha più uno quattrino per mantenere Alice ei figli, Alice che sta dubitando dei sentimenti di Monet per lei. Ci vuole dipingere. Tanto. Il mare, la casa dei doganieri, la scogliera, la chiesa di Varengeville, la punta del piccolo Ailly. Organizzare una mostra a Parigi e sperare nella vendita di qualche tela per rimettersi a galla. Osservo il dipinto e questa casa dei doganieri sotto il sole di una bellissima giornata d’estate. La immagino in inverno, i giorni di tempesta, accerchiata dal mare di un lato e dalla lande rocciosa di un altro; la immagino tremante sotto gli assalti del vento, accerchiata dall’ostilità della gente di questo paese di niente. La immagino con dentro due doganieri estenuati, che hanno passato una settimana a rischiare la pelle esplorando ogni buco ai piedi delle falesie alla ricerca di merci di contrabbando. Li immagino lottare contro la gente del paese che accendono fuochi, la notte, sulle falesie, per fare naufragare le navi. Mi fa tanto pensare al mio Médoc di una volta questo dipinto. Devo smettere perché è solo una vecchia capanna che riscalda le sue vecchie ossa al sole per una bellissima giornata d’estate. Esco dal museo delle dogane. Ho fatto bene di portare un ombrello, piove a secchie sulla piazza della Borsa di Bordeaux. Non ho uno sguardo per le Tre Grazie tanto ho fretta di ritrovarmi in un bar sui moli per prendere un caffè con un bicchierino di Calva….

 

 

 

 

Bordeaux: Un invito al viaggio nel giardino del palazzo Rohan.

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Il museo delle Belle Arti di Bordeaux è situato nel giardino del palazzo Rohan che è l’altro nome del palazzo comunale di Bordeaux. Il museo è composto da due gallerie parallele, l’una chiude il giardino a Sud e l’altra lo chiude a Nord. Quindi prendete il biglietto nella galleria Sud e, quando avete finito di visitare questa prima galleria, dovete uscire fuori e attraversare tutta la larghezza del giardino per visitare la galleria Nord che ospita le opere più moderne. Ovviamente c’è un perché a questa stranezza che può dare fastidio ai visitatori. I soldi! Sono mancati i soldi per fare la terza galleria a Ovest che avrebbe dovuto collegare le due altre! Al posto della bellissima recinzione e del cancello in ferro battuto che permette di entrare nel giardino ci dovrebbe essere una terza galleria e non dovreste vedere il giardino dalla strada. Ma perché vi racconto tutto ciò? Perché è esattamente su tutta la lunghezza di questa galleria fantasma che l’installazione artistica del grafico bordolese, Frank Tallon, è stata sistemata. L’opera è composta da dodici tende mobili fronte retro che raffigurano paesaggi famosi che potete scoprire nelle due gallerie del museo delle Belle Arti. Lo scopo di questa installazione è di teatralizzare l’ingresso del giardino e lo spazio austero tra gli ingressi delle due gallerie; come presentare un assaggio delle meraviglie che vi aspettano dentro il museo, di invitarvi al viaggio passando dietro le quinte. Funziona? Diciamo che, di solito, passate nella strada con mille preoccupazioni in testa e là vi ritrovate come per magia a vagare tra le tende. A passare da un dolce paesaggio italianizzante a quello di un mare in furia dove un capitano bordolese rischia la sua fregata per salvare una nave olandese. A soffrire il freddo e la nebbia di una sera bordolese e, un momento dopo, l’afa di un giorno d’estate sui moli. A tentare di ricordare il nome di un pittore di cui avete parlato mille volte sul blog. A sorridere perché c’è un tizio che non può staccare gli occhi del seno di una Venere al bagno. Poi vi allontanate e vi sedete su un banco per osservare i visitatori perché sono loro il teatro. Le due donne che toccano questa tenda. Bordolesi sicuramente. Devono dirsi che non sarebbe male questo vinile e questo disegno per una tovaglia. Bambini che giocano a nascondino nel giardino e che non possono impedirsi di venire nascondersi tra le tende. Ragazzine che sfilano e fanno smorfie tra le tende perché c’è un concorso fotografico che premierà gli scatti più  originali…Va bene è tempo, dopo questa pausa, di proseguire il viaggio nel museo attraverso tutti quei paesaggi di pietra, di terra, d’acqua e di pelle…

Parigi: In cui l’autore si perde nelle nuvole di Claude Monet!

A Giverny, nel giardino di Claude Monet, era troppo presto nella stagione per osservare la fioritura delle ninfee del giardino d’acqua, allora lei ha proposto, l’indomani mattina, di andare a vedere le ninfee al museo dell’Orangerie. Non oso dirle che mi danno sui nervi i grandi musei parigini, che mi generano una frustrazione che lei non può nemmeno immaginare, che non riesco mai a concentrarmi abbastanza per godere delle opere esposte, che c’è sempre qualcuno a spintonarmi quando guardo qualcosa, che il chiacchiericcio senza fine della gente o quello delle scolaresche mi è insopportabile, che mi viene la voglia di assassinare ogni persona che vedo con una macchina fotografica; che se non fosse per farle piacere, non ci entrerei mai al museo dell’Orangerie, io. Arriviamo i primi e mi siedo sul banco centrale della seconda sale delle Ninfee e mi metto a contemplare Le Nuvole. Mi dico che, nel Médoc, le ninfee devono essere già fiorite sul lago di Lacanau e che probabilmente se avessi un giorno di riposo come quello di oggi, sarei sul lago. Chiudo gli occhi. C’è un’insenatura sul lago che si chiama la baia delle Ninfee e dove si rifugiano i cigni in estate perché è la sponda più selvaggia del lago. Nella foresta che costeggia questa baia, talvolta, ci si incontrate un pazzo che si vanta di averci sistemato un giardino dell’Eden. Ed è vero! perché lui ha costruito, con quattro assi, un pontile sul lago da cui avete una vista paradisiaca sulle zattere di ninfee che danno il nome alla baia. Una cosa che mi fa sempre sorridere quando ci passo, è che lui ha affissato su un pino, un cartello con il suo numero di telefono. Il cartello dice che se non siete d’accordo con lui, che trovate che il posto non è paradisiaco come lui pretende e che lui non è al suo posto abituale ad ammirare il lago, potete fargli una chiamate per dirglielo. Il cartello dice anche che se telefonate, dovete avere argomenti seri per sostenere il vostro punto di vista. Sono seduto nella barca in mezzo alla baia delle Ninfee e sto ammirando i fiori di colore malva delle ninfee. Nelle zattere galleggianti a forma di cerchio delle ninfee, le gallinelle d’acqua ci fanno i loro nidi ed è sempre uno spettacolo incantevole in questa stagione di vedere i loro pulcini neri e tutti pelosi, nuotare tra i fiori. Io ci vorrei restare un’eternità in questa barca a osservare le ninfee e le damigelle blu che ci danzano sopra e che sembrano diamanti quando il sole le attraversa. Una volta, mi ricordo che stavo leggendo e che mi sono addormentato nella barca. Poi, ho avuto l’impressione che qualcuno mi guardava. E c’era un cormorano nella barca. Sapete come aprono le ali per asciugarle. Cristici. Forse lui ha sentito che mi ero svegliato, che il mio modo di respirare era diverso, che lo guardavo con gli occhi socchiusi. L’uccello si è tuffato nell’acqua prima che possa salutarlo. Un’altra volta, ma era in aprile quando le acque del lago sono tutte ingiallite dal polline di milioni di pini, ho vogato fino all’isola agli uccelli in mezzo al lago. C’era un cervo che aveva probabilmente nuotato fino all’isola per sfuggire all’ultima battuta di caccia dell’anno. Ci siamo guardati. Paralizzati. Io dall’emozione, lui dalla paura. Fino alla primavera, dobbiamo vestirsi con abiti ridicoli quando andiamo in foresta perché c’è sempre il rischio di essere preso per un cervo da un cacciatore. Il cervo si è rassicurato di vedermi vestito come un Arlecchino e si è disinteressato di me. Lui da una parte dell’isola a pascolare, io dall’altra ad approfittare del sole e a nuotare tra le erbe acquatiche che fanno paura ai bambini di mio fratello perché ci si vivono miriadi di gamberi di fiume. In fine pomeriggio non ho più visto il cervo e ho pensato che lui era tornato a casa, lontano a nord, nelle paludi di Carcans. Nella barca sento il sospiro del vento nei pini e le querce, i vocalizzi delle rane e quelli delle anatre nelle vecchie lagune al sud. Seguo con gli occhi le nuvole bianche che solcano i cieli blu sopra Lacanau. Sento anche il tamburellare di un picchio nel fondo della foresta….Quasi mi sta parlando questo picchio! Ma cosa fai? Stai sonnecchiando che fa due ore che guardi questa tela? Ma no, protesto completamente disorientato di ritrovarmi all’Orangerie, stavo studiando Le Nuvole di Monet! D’altronde mi ricordo che lui ha concepito queste sale come dei luoghi di riposo, per sfuggire al bordello della città in qualche modo…Lei ride e vuole assolutamente mi fare confessare che non ho provato un’emozione artistica, ma che ho dormito tutto il tempo che ho passato in questa sala. Va bene, lei dice, adesso dobbiamo andare a trovare qualche brasserie per pranzare, poi mi dovrai abbandonare a Orsay per ritrovare la tua amica di Parigi…

 

 

In cui le rose di Maria Antonietta svelano l’ipocrisia dell’autore di questo blog!

Ritratto di Maria Antonietta con la rosa. 1783. Louise-Elisabeth Vigée Le Brun (1755-1842), pittrice. Reggia di Versailles

Un giorno lei è rossa e mi chiede di portarla al cimitero di Montparnasse perché lei vorrebbe inchinarsi davanti al monumento ai Federati. L’indomani lei è bianca e, mentre camminiamo sul boulevard Haussmann per andare al museo Jacquemart-André, lei chiede di fermarsi per raccogliersi alla cappella espiatoria che fu edificata da Luigi XVIII sulla fossa comune nella quale furono buttati i cadaveri di Luigi XVI e di Maria Antonietta nel 1793. So che lei ha una passione per la pittrice Vigée Le Brun e che è particolarmente colpita dal dipinto in cui si vede, prima la Rivoluzione, l’austriaca, felice, raffigurata con i figli. Quindi non sono sorpreso quando la tizia tenta di intenerirmi cominciando a parlarmi del dipinto e del destino tragico dei figli. Sai che dei quattro figli di Maria Antonietta, solo quella che ha lo stesso nome di me raggiunse l’età adulta? Il Delfino morì a otto anni nel 1789. Il fratello, Luigi XVII, morì nel 1795 alla prigione del Tempio. L’altra sorella morì nel 1787 prima il suo primo compleanno…Non mi raccontare niente, traditrice! Quando penso che, ieri, eravamo al monumento ai Federati e che ti ho sentito anche canticchiare il tempo delle ciliegie. Che mi dicevi di volere andare al Sacré Coeur per maledire l’infame monumento! E, oggi, mi dici che vuoi visitare questo coso dedicato alla gloria della tirannide? Vai, vai, serpente, a fare le tue devozioni, a pregare, a inchinarti davanti agli aguzzini dei nostri antenati! Io attraverso solo in fretta questo Pantheon ridicolo e ti aspetto nel cortile…Lei ride e mi fa una smorfia prima di entrare nella cappella…Finalmente, mi dico, sono un po’ tranquillo per passare un momento solo nel cortile e vedere il famoso doppio viale di rosai bianchi Iceberg – la rosa si chiama anche fate delle nevi – piantato quasi cinquanta anni fa e che è un omaggio a Maria Antonietta. La rosa fate delle nevi è un’allusione a un ritratto stra conosciuto di Vigée Le Brun intitolato: Maria Antonietta con la rosa. E ovviamente, ipocrita come sono, per niente al mondo, vorrei che lei mi trovasse ad ammirare un simbolo della monarchia. E ovviamente non manca perché quando lei mi raggiunge nel cortile, sono a meravigliarmi davanti ai rosai. Lei sta ridendo perché mi ha anche visto dalla cappella precipitarmi verso i rosai, appena pensavo che lei fosse fuori dalla mia vista. Poi, la tizia mi mostra una cartolina che lei ha comprata dentro e che è il famoso ritratto di Vigée Le Brun che raffigura Maria Antonietta con la rosa. Lei aggiunge ridendo: “Tenez! C’est pour vous, Monsieur l’Hypocrite.” 😉

 

Uno scatto qualunque a Giverny.

A Giverny hanno anche loro una chiesa Santa Radegonda come abbiamo noi, abitanti dell’estuario della Gironda. Mentre il cimitero della nostra chiesa Santa Radegonda è tutto fiorito e ridente quanto il giardino di Claude Monet a Giverny, il cimitero della loro chiesa Santa Radegonda a Giverny è di una tristezza assoluta. Quasi da sembrare abbandonato. Il cimitero è dietro la chiesa e ci vuole salire un cammino tutto scassato e, a mezzo cammino, sulla destra c’è la tomba della famiglia Monet. Lei mi sta raccontando di Camille, la prima moglie di Claude Monet, che è raffigurata in tanti dipinti di Monet e come la seconda moglie di Monet, Alice Hoschedé, chiese al marito di distruggere tutti gli scatti che lui aveva di Camille e tutta la loro corrispondenza. Poi, lei mi fa notare quattro poveri papaveri che fioriscono sul cammino davanti alla tomba di Monet e altri che crescono anche nelle crepe dei muri della chiesa. Lei sorride e dice che la povera Alice deve rivoltarsi nella tomba alla vista dei papaveri. Ed è vero, sto pensando, che i papaveri evocano insanabilmente l’immagine di Camille che è questa donna che sta passeggiando in mezzo ai papaveri nei dipinti di Monet. Così Camille è un po’ con Monet e i figli, dico. E poi anche per Alice la fioritura di quei quattro papaveri deve essere la cosa più aspettata e più incantevole del mondo, se pensi che loro sono seppelliti in quel luogo assolutamente lugubre che è allietato solo dal rosso di quei quattro poveri papaveri durante la bella stagione. Lei sorride di nuovo e mi dice che non trascurano abbastanza il cimitero e che dovrebbero l’abbandonare completamente, così in qualche anno il luogo sarebbe sommerso dai papaveri. Sai come i papaveri sono invasivi. So che lei mi punzecchia perché fa anni che tento di coltivare dei papaveri e si piacciono dappertutto tranne nel mio giardino. Ma comunque trovo bella la sua idea di un cimitero impressionista. Scendiamo il brutto cammino per raggiungere la strada e lei si mette a cantare una canzone francese di una volta. Gentil coquelicot, Mesdames. Gentil coquelicot nouveau. Due bordolesi pazzi a Giverny.

Alex nel giardino di Claude Monet a Giverny. Seconda parte.

Il giardino di Claude Monet a Giverny. Blanche Hoschedé-Monet (1865-1947).

Il giardino di Claude Monet è tanto frequentato che sembra la via Sainte-Catherine di Bordeaux un giorno di soldi. Fermarsi per ammirare la fioritura degli iris, dei papaveri, delle peonie…è un rischio e ho mancato tre volte di cadere nello stagno delle ninfee e mia madre è stata quasi buttata via due volte dal ponte giapponese perché lei restava là a sbadigliare ammirando la prospettiva invece di circolare e di lasciare questi fottuti malati di turisti fare i loro scatti e i loro selfie. Povero Monet! Anche lui non potrebbe più oggi sistemare il suo cavalletto nel suo giardino per dipingere in pace i suoi fiori. Ma quei turisti te lo manderebbero in acqua in un attimo! Un tizio così che disturberebbe la circolazione e impedirebbe di scattare tutto e niente. Pensate un po’ lo scandalo! Ma lui non sarebbe sopportato più di due minuti nel suo proprio giardino! La gente non vede niente, non guarda niente del giardino di Claude Monet, troppo occupata a scattare tutto e anche le cose che non hanno il minimo interesse. Per dirvi come la gente che frequenta il giardino sembra sfuggita da un manicomio. C’è un tizio anziano che sta visitando il giardino con la moglie. Il povero porta una barba bianca e ha un basco in testa. E tutti quei malati di pensare che il tizio è un attore che sta interpretando il ruolo di Claude Monet e tutti di abbandonare la fotografia dei fiori per andare a scocciare il povero vecchio per scattarlo o farsi un selfie con lui. Pensate un po’ come il vecchio era contento di dovere subire tutte queste stronzate. Alla fine, l’ho visto anche rifugiarsi con la moglie verso la casa per scappare a questa situazione. Dopo l’episodio del vecchio, sta arrivando un matrimonio cinese perché in questo giardino la follia non finisce mai. Il fotografo cinese è tanto attrezzato di videocamere e di fotocamere che lui potrebbe girare addirittura un episodio di Star Wars nel giardino di Claude Monet. Sorrysorry, lui dice pigiandosi e noi capiamo che sorrysorry significa in cinese: fuori dalle palle che siete in mezzo alle nozze. Ma forse lui non deve conoscere mia madre perché quando la tizia ha pagato un biglietto per visitare un posto, non la “spedite” così facilmente. E, francamente, lei se ne frega completamente di essere sugli scatti delle nozze. Faccio notare a mia madre che la sposata ha delle scarpe da basket rose sotto lo stupendo abito nuziale. Lei mi fa notare che le damigelle sono in mutande. No mamma! sono in minigonne. Guardi, il coso nero che loro hanno sopra le mutande non è una cintura. Ma perché le damigelle hanno due borse? Ti confesso che ci conosco poco in moda cinese. Mamma, non vuoi sedersi cinque minuti su un banco, il tempo che finisce tutto questo bordello? Anche due damigelle vengono a sedersi accanto a noi e non ho mai avuto l’impressione di essere così invisibile in vita mia. Ogni tre seconde, le signorine cinesi si fanno un selfie. Ma cos’è questa gente? chiede mia madre. Degli alieni, rispondo, guardando gli sposi, diretti dal fotografo, fare finta di baciarsi, di correre al rallentatore sul piccolo ponte, di raccogliere una radicchiella o di guardare nel lontano. Quando il matrimonio è partito, si apre una nuova scena nel giardino di Monet e tutti i turisti di precipitarsi verso lo stagno delle ninfee per scattare un giardiniere in barca che sta lavorando a potare delle piante acquatiche. A me fa pensare a un numero di circo che ho visto allo zoo tranne che è un giardiniere in mostra al posto di un’otaria. Ci sediamo di nuovo su un banco dove ci sono due donne inglesi. Va bene, mi dico. Finalmente due persone normali. In realtà, le donne stanno parlando del chiasso che fanno le gazze nel giardino e che loro non vedono. Poi, le due donne mi chiedono se ho visto le gazze durante la nostra passeggiata. Sono tanto imbarazzato che non oso rispondere e loro che insistono! Mi dispiace, signore, non sono gazze che sentite, ma le rane dello stagno. Loro ridono. Mia madre mi chiede di tradurre la conversazione e preferisco mentire dicendo che le inglesi mi parlavano delle rane. Poi, mia madre si allontana e la vedo parlare con un giardiniere. Lei torna sorridendo. Finalmente ancora una mezz’ora e scopriremo l’anima del giardino di Claude Monet! Pazienza. Io ne dubito, ma preferisco tacere. Dopo una mezz’ora lei dice che è l’ora e mi chiede se ho notato qualcosa. Niente. Non vedo di cosa stai parlando. I pazzi, lei dice, tutti i pazzi sono andati a pranzare e il giardino è tutto per noi! Lei va a raggiungere i giardinieri, sicuramente per chiedere loro dei consigli per le sue piante. Io mi decido a visitare la casa di Monet e dalla finestra del primo piano, guardo mia madre chiacchierare con due giardinieri, poi lei si mette a vagare tutto al suo sogno tra le aiuole fiorite e disertate del giardino di Claude Monet…