Oceano: I Pesci e il Cormorano.

Non sono cretini quei cormorani, mi dico, mentre li sto osservando dalla cima della duna. L’oceano si trova a solo qualche chilometro, ma loro preferiscono pescare nelle acque chiare e poco profonde dell’immenso lago di Carcans. E’ tutto uno spettacolo di vederne uno tuffarsi e risalire in superficie con un grosso pesce argento nel becco. Poi divertirsi a farlo saltare in aria da un colpo di becco prima di l’inghiottire in un lampo. Dopo due o tre rappresentazioni, l’uccello marino raggiunge lo stendibiancheria. Un pescatore si sta avvicinando seduto su una specie di ridicola sedia gonfiabile galleggiante irta di tante canne da pesca che ho l’impressione di vedere una grossa mina vagante sul lago. I cormorani lo guardano indifferenti continuando ad asciugarsi le ali e so già che i cormorani voleranno via verso Nord appena l’importuno avrà raggiunto la loro zona di pesca. I pesci devono provare sollievo, mi dico, perché sanno bene che la canna da pesca più perfezionata è inoffensiva nei confronti di un becco di cormorano. E lo sanno anche i cormorani che fra qualche ora ritorneranno sullo stendibiancheria. Mentre continuo la mia passeggiata sulla duna, mi torna in mente una fiaba di La Fontaine in cui l’autore attribuisce al cormorano una previdenza delle più intelligenti. Poveri pesci.

I Pesci e il Cormorano

Non v’era stagno in tutto il vicinato
in cui Cormorano a lungo non avesse
col suo becco pescato.
Pescaie e chiuse a lui facean la spesa
della cucina allegramente bene,
ma quando nelle vene
per vecchiezza gelò nell’animale
il sangue, l’andò male.
Ogni Cormorano si serve da se stesso
e il nostro, mezzo cieco per l’età,
che non vedea le cose troppo chiare
e reti non aveva per pescare,
si trovò presto in gran difficoltà.

Il bisognin dottore in strategia
insegna all’uccellaccio
una maniera per uscir d’impaccio.
Rivolgendosi a un Gambero di fiume vicino:
– Amico, – gli parlò, – non ti rincresca
a dire a questi Pesci che il padrone
vuol fare una gran pesca
e che segnato è l’ultimo destino -.

Lesto si muove il Gambero di fiume
e porta l’ambasciata,
onde turbato il popolo
dei Pesci si raduna e manda a chiedere
a messere Cormorano ove ha pescato
la terribil notizia.
Chi l’ha portata? quali son le prove?
E se non è fandonia
come salvarsi e dove?

– Bisogna cangiar luogo, ecco il rimedio.
– Sta ben, ma in qual maniera?
– Se credete, vi porto a una scogliera
dove abito di solito,
luogo sicuro che non sa che Dio
che esista al mondo ed io.
Colla sua man vi fece la Natura
un golfo ove non passa un’ombra umana.
Dei pesci la repubblica
in quella spiaggia inospite e lontana
potrà viver sicura -.

Ad uno ad un il Cormorano
i suoi Pesci portò,
e nel rinchiuso albergo,
ove il luogo è disteso e l’acqua limpida,
da buon padre i suoi figli imprigionò.
Ad un ad un li pesca allegramente
e insegna a loro spese
che non bisogna credere
a chi mangia la gente.

Se non era il Cormorano, si assicura
che altri n’avrebber fatta una frittura:
e per i Pesci il caso è indifferente.

Aquitania: Le Sirene della Garonne.

Io questo racconto delle sirene della Garonna, l’ho sentito più volte e ho deciso di condividerlo con voi, lettori e lettrici. Nella versione sotto, il racconto si svolge lungo il fiume Gers che è un affluente della Garonna, ma è sempre la stessa storia che sentirete che siate in riva alla Garonna o lungo uno dei suoi affluenti, quella di quei disgraziati..

Ci sono sirene nel mare. Ce ne anche nei fiumi. In un momento, avrete la prova che qualcuno ne ha visto nel fiume Gers. Le sirene hanno i capelli lunghi e fini come la seta, e si pettinano con pettini d’oro. Dalla testa alla cintura rassomigliano a delle belle ragazze diciottenni. Il resto del corpo è simile al ventre e alla coda dei pesci. Quelle bestiole hanno la loro propria lingua per spiegarsi tra esse. Se devono parlare con dei cristiani, parlano sia in guascone sia in francese.  Si dice che le sirene vivranno fino al giorno del Giudizio Universale. Certi credono che queste creature non abbiano di anima. Però molti pensano che abbiano dentro il corpo le anime delle persone annegate in stato di peccato mortale. Io su questo non saprei decidere chi ha ragione tra gli uni e gli altri. Durante il giorno, le sirene sono condannate a vivere sotto l’acqua. Non si è mai saputo cosa ci fanno. La notte, risalgono per greggi, e folleggiano, nuotando, al chiaro di luna, fino al primo suono dell’angelus della mattina. Succede che si battono. Allora si graffiano e si mordono, per succhiarsi il sangue. Al primo suono dell’angelus, sono costrette a tornare sotto l’acqua.

Molti marinai, viaggiando sul mare hanno visto greggi di sirene  nuotare intorno alle navi. Molti barcaioli ne hanno visto anche loro nella Garonna. Cantavano, nuotando, canzone tante belle, così belle, che ne avete mai sentito né sentirete mai delle simili. Per fortuna, i padroni  delle navi e delle barche non si fidano, e sanno ciò che ci vuole pensare di queste cantanti. Impugnano un bastone, e si mettono a picchiare i giovani marinai pronti a tuffarsi per raggiungere le sirene. Però i padroni non possono sempre aver l’occhio dappertutto. Allora, le sirene cascano sui tuffatori. Succhiano loro il cervello e il sangue; mangiano il loro fegato, il cuore e la trippa. I corpi dei poveri annegati diventano delle sirene, fino al giorno del Giudizio.

E ora, ecco la prova che ci sono sirene nel fiume Gers. C’era una volta, in una frazione della città di Lectoure chiamata La Côte, un giovane tessitore tanto appassionato, ma tanto appassionato di pesca che la gente gli aveva dato il soprannome di Bernardo-Pescatore (che significa airone in guascone). Ogni sera, al tramonto, se ne andava a tendere le sue reti da pesca e le sue linee di fondo nel fiume Gers. Poi tornava l’indomani  mattina, prima l’alba, per alzarle. Una sera, ai tempi della mietitura, Bernardo-Pescatore, era andato a sistemare le sue reti e le sue linee di fondo alla cascina di Talayzac, nel comune del Castéra-Lectourois. Fatto questo, si dice per se stesso:
– La mia casa è lontano, la cascina di Talayzac è a due passi. Conosco il padrone. Mi alloggerà per la notte. Domami, gli farò regalo di una carpa. Il contadino fece cenare Bernardo -Pescatore, e lo mandò a dormire in un buon letto. Dopo il suo primo sonno, Bernardo-Pescatore saltò a terra, si vestì nell’oscurità, aprì la finestra, guardò la luna e le stelle, e pensò:
– Sono quasi le tre. É tempo di andare ad alzare le reti e le linee di fondo.
Subito, Bernardo-Pescatore scese verso il fiume. A cento passi dal Gers, sentì gridi e risate di ragazze. – Diavolo! Egli pensò. Le ragazze del Castéra sono venute a fare il bagno qui. Avranno spaventato i pesci. Non avrò bisogno di prendere in prestito la giumenta del contadino di Talayzac per portare la mia pesca a casa.
Bernardo-Pescatore si avvicinò lentamente lentamente del fiume, nascondendosi dietro i cespugli, i frassini e i salici per vedere bene le ragazze senza farsi notare. Le ragazze pettinavano con dei pettini d’oro i loro capelli fini come la seta. Nuotavano e folleggiavano al chiaro di luna. Bernardo-Pescatore sentiva i loro gridi e le loro risate.
– Il diavolo mi porta via, egli pensò, se conosco una di queste ragazze e se capisco una parola di loro gergo.
Lo spuntare dell’alba era vicino, e Bernardo-Pescatore era ancora a guardare. Alla fine, una delle ragazze lo accorse e gridò:
– Un uomo! Un uomo!

Subitamente, tutte le ragazze si voltarono verso Bernardo-Pescatore:
– Bernardo-Pescatore, amico mio, vieni, vieni a nuotare con noi.
– Madre di Dio! Sono in mezzo a un gregge di sirene.
– Bernardo-Pescatore, amico mio, vieni, vieni a nuotare con noi.
Allora, le sirene cominciarono una canzone così bella, così bella, che ne avete mai sentito e ne sentirete mai una simile.
Per la virtù di questa canzone, Bernardo-Pescatore era forzato ad avvicinarsi all’acqua.
Le sirene cantavano senza mai smettere.
Madre di Dio! pensava il tessitore, sono in mezzo a un gregge di sirene.
E le sirene cantavano. Bernardo-Pescatore era in riva al fiume. Pronto a tuffarsi nell’acqua senza volerlo, quando le campane della chiesa del Castéra suonarono le prime note dell’angelus. Subito, le sirene smisero di cantare e si nascosero sotto l’acqua.
Bernardo-Pescatore tremava come la foglia del trifoglio selvatico. Era pallido come un morto. Alzò le sue reti e le sue linee di fondo. Mai il tessitore aveva preso  tanti bei pesci. Ma non conservò niente per lui e diede tutta la sua pesca al contadino  di Talayzac. Fatto questo, tornò a casa a La Côte, e restò sette giorni senza uscirne. L’ottavo giorno, partì all’alba per Notre-Dame-de-Bétharram che è un luogo di devozione rinominato nel Béarn. Lì, Bernardo-Pescatore trascorse tutto  un mese a fare bruciare delle candele, e a sentire delle messe, dall’alba fino a mezzogiorno. La sera diceva il suo rosario fino all’ora di andare a letto. Tornando a La Côte, Bernardo-Pescatore bruciò le sue reti e le sue linee di fondo. Non pescò mai più e consigliò ai suoi amici di fare come lui. La notte, non si avvicinava del fiume Gers perché aveva paura di incontrare di nuovo un gregge di sirene.

 

 

 

Nel paese dove le fate vivono tra le caldaie dell’inferno!

Le caldaie dell’inferno sono ranuncoli e come tutti i ranuncoli sono piante tossiche che contengono una sostanza chiamata anemonina che è mortale per uomini e animali. I ranuncoli perdono la tossicità solo quando sono essiccati. Credo siano chiamate così da noi perché, secoli fa, la radice essiccata della pianta serviva a fare una specie di tè che veniva usato per fare sudare i malati. Sono cugine strette dei botton d’oro che sono l’incubo degli allevatori di bestiame e di cavalli e i fiori preferiti dei bambini. Mettete due bambini francesi in un campo dove ci sono dei botton d’oro e li vedrete subito andare a raccogliere botton d’oro per giocare a “Ti piace il burro?” La differenza tra i due cugini è che la caldaia dell’inferno è molto più grande, il fior molto più bello di quello del botton d’oro e che la caldaia dell’inferno vive nelle paludi. Un’altra cosa da notare è che le caldaie dell’inferno hanno bisogno, come le fate, di un’acqua purissima per svilupparsi. Di cui l’idea che le caldaie dell’inferno sono le piante preferite delle fate perché condividono gli stessi luoghi. E se passeggiate nelle paludi tutte ingiallite dalla fioritura delle caldaie dell’inferno in aprile, potete essere sicuri che ci sono delle fate che vivono a prossimità e non dovete mai offenderle raccogliendo delle caldaie dell’inferno. Altrimenti le fate si vendicano. Mi è successo una volta, bambino, di offendere le fate. Eppure, ero stato avvertito mille volte di non toccare o raccogliere piante nella palude perché sono tossiche e appartengono al mondo delle fate e delle streghe. E io cosa faccio? Mi sporco le mani e mi presento a casa della nonna per offrirle un pieno mazzo di caldaie dell’inferno. Mia nonna non guarda i fiori, ma subito le mie mani. E anche io guardo le mie mani che stanno incuriosendo tanto mia nonna. E cosa vedo? Che ho le mani tutte infiammate e gonfiate, che mi sta venendo un forte prurito…Forse è la lebbra, dico, contento delle mie conoscenze scientifiche. O forse hai offeso le fate! dice mia nonna. Non piangere, tesoro! Dobbiamo tornare nella palude dove hai raccolto le caldaie dell’inferno. Ecco il posto, nonna! A due passi dalla casa. Sai perché l’acqua dei fiumi è rossa nella palude, tesoro? mi chiede mia nonna. Perché le fate si lavano da secoli nei fiumi e a forza i loro capelli rossi hanno tinto tutte le acque della palude, rispondo. Esatto, tesoro! Adesso dobbiamo fare un regalo alle fate che hai offeso. Ho portato un fazzoletto ricamato che servirà alle fate a confezionare vestiti. Vai a legarlo a un ramo di questo antico ontano perché sono sicura che le fate vivono tra le sue vecchie radici che si immergono nel fiume. Va bene. Le fate non possono resistere a questo tipo di regalo. Adesso immerge le tue mani nell’acqua rossa del fiume e chiedi loro perdono di aver derubato i loro fiori promettendo di mai più farlo. Vedi le tue mani cominciano a sgonfiare; è il potere magico dell’acqua delle fate. Le fate mi hanno perdonato nonna? Lo saprai domani. Tornando dalla scuola, andrai a vedere se c’è ancora il fazzoletto. Se non lo vedi, sei perdonato. L’indomani, non c’era più il fazzoletto. Non ho mai più toccato una caldaia dell’inferno.

La casa dei lupi.

 

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Una volta, in una casa, il gatto sentì la padrona che diceva al marito:

– Questo gatto si fa vecchio. Non può più cacciare i ratti come una volta. Ci vorrà annegarlo nel ruscello.

 Bene come vorrai rispose l’uomo.

Il gatto che si scaldava al piede del focolare, sentiva tutto, ma non diceva niente. Un momento dopo la donna disse ancora:

– Carnevale si avvicina. Metterò il gallo in pentola. Così, avremo del buon brodo e del buon bollito il giorno di Martedì Grasso.

Il gatto faceva finta di dormire, ma non perdeva una parola di tutto quello che si diceva. Poi se ne andò fuori a trovare il gallo:

– Gallo, si stanno combinando delle cattive cose per noi due. Tu, vogliono metterti in pentola il giorno di Carnevale, e io, vorrebbero annegarmi perché sto diventando troppo vecchio. Penso che non sia una brutta idea di squagliarsela al più presto.

– Hai ragione, gatto.

Poi il gatto e il gallo se ne andarono. E camminarono, e camminarono. In strada, incontrarono una cicogna.

– Buongiorno brava gente.

– Buongiorno Cicogna, E dove vai così?

– Oh! Ho un’ala rotta. E ormai non posso più volare. Quindi sono costretta a camminare.

– E bene, noi, siamo partiti per fare un viaggio. Se vuoi seguirci. Ti portiamo con noi.

E il gatto, il gallo e la cicogna se ne andarono.

E camminarono, e camminarono. Attraversando un prato, incontrarono un montone che pascolava là.

– Buongiorno brava gente.

– Buongiorno Montone. Non sembra troppo felice!

– Oh! Pensate! Carnevale si avvicina e il pastore vuole vendermi al macellaio del paese.

– E bene, noi siamo partiti per fare un viaggio. Se vuoi seguirci. Ti portiamo con noi.

E il gatto, il gallo, la cicogna ripresero la loro strada con il montone.

E camminarono, e camminarono. Alla fine, arrivarono davanti a una casa, lontano, lontano, in mezzo alla Landa. C’era sul davanti della casa un prato tutto tappezzato di una bella erba verde. Il gallo, la cicogna e il montone si misero a pascolare.

– Oh, a me, disse il gatto, non piace. Nessuno mi ha imparato a pascolare. E entrò nella casa: non c’era nessuno dentro: Andò al salatoio e ne uscì con un bel pezzo di lardo.

Come la notte cadeva, queste quattro bestie, una volta bene sazie, si rifugiarono nella casa per passarci la notte al riparo. Ma presto, sentirono gli urli di una muta di lupi che arrivavano verso la casa al gran galoppo.

– Oh! Disse il gatto, siamo nella casa dei lupi. Ci vuole sbarazzarsi di queste cattive bestiole…Spegniamo la candela, e non diciamo più niente. Tu, gallo, appollaiati su questa mensola davanti alla porta. Tu, cicogna, accoccolati all’angolo del lavandino. Tu, montone, cacciati sotto la tavola. Quanto a me, mi nascondo nelle ceneri del focolare.

I lupi avevano visto da lontano la luce nella casa: non osavano entrare senza sapere chi era dentro.

 Ci entro il primo, disse l’uno di loro, per vedere se non c’è pericolo poi vi chiamerò.

Questo lupo aprì la porta, e ascoltò: non sentì niente. Si inoltrò allora dentro, piano piano. L’oscurità era totale, ed egli brancolava nel buio. Volle avvicinarsi alla tavola per prendere la candela: ma il montone passò dietro di lui, e gli diede tre grandi testate nel sedere, così forte che lo fece cadere sul naso. Il lupo si rialzò e andò verso il focolare per accendere la candela ai tizzoni: il gatto gli saltò alle narici e con le grinfie gli strappò tutto il pelo con un pezzo della pelle del muso.  Il lupo si voltò verso il lavandino: la cicogna lo aspettava e gli cavò un occhio con un colpo di becco.

Il povero lupo, spaventato, massacrato di botte, graffiato e accecato, si salvò fuori senza chiedere il suo conto. Come egli varcava la soglia della porta, il gallo si mise a cantare.

– Chicchirichì!  chicchirichì!  chicchirichì

Il lupo corse verso il posto dove aveva lasciato gli altri.

– Amici, non tornate in questa casa! Non ci si respira un buona aria per noi. Mentre stavo cercando la candela sulla tavola, un fabbro mi ha dato tre grandi colpi di mazza nel sedere: mi ha fatto schiacciare il naso a terra. Ho voluto avvicinarmi del focolare: là, un cardatore mi ha pettinato il muso con il pettine del lino. Accanto al lavandino, c’era un calzolaio che mi ha strappato l’occhio con il suo punteruolo. Andateci a vedere se volete essere trattati come lo sono stato; per quanto mi guarda, non ho nessuna voglia di tornarci.

Sentendo questo, i lupi presi dalla paura, scapparono fino al fondo della Landa, come se avessero avuto il diavolo a ridosso.

Non tornarono mai più nella loro casa; e il gatto, il gallo, la cicogna e il montone ci rimasero, felici e in pace, buoni amici, e ci morirono di vecchiaia.

Fiaba tradizionale delle Lande di Guascogna.  

Le fate della duna di Boumbét.

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C’era una volta un pastore di Taoulade che rinchiudeva le sue pecore in un ovile, a Boumbét dove si trova la Grande Landa. L’ovile di Boumbét non esiste più oggi: era situato a nord dai poggi, presso una specie di prato. Questo pastore era un ragazzo un po’ fiero, e che sapeva anche un po’ leggere.

– Non vuoi frequentare coloro che ti valgono, ne parlare con loro, gli dicevano gli altri pastori, eppure sarai sempre pieno di zecche!

Ma lui lasciava dire e ne faceva solo di testa sua.

Sapete ciò che si raccontava una volta, che si sentiva del rumore sotto la duna di Boumbét. E il pastore, sorvegliando il gregge, ne aveva fatto più di una volta l’esperienza; talvolta si sentiva un gri-gri-gri come se qualcuno avesse mosso stoviglie; talvolta si sentiva come delle grandi risate, oppure come il rumore che fa la gente che cammina sull’alios: Plim-plam, plim-plam…E lui pensava spesso, con un po’ di timore però: mi piacerebbe vedere il nido dei calabroni che possono ronzare in quel modo… Eravamo in mezzo all’estate; si lasciava le pecore fuori durante la notte.

Una sera, il pastore giunse l’ovile, e una volta il gregge fuori, andò a sedersi in cima alla duna. Là, egli tirò un libro dallo zaino e si mise a leggere. E leggeva, leggeva senza smettere…A tratti, dava un occhio alle stelle.

Dopo un lungo tempo, verso mezzanotte, la duna si aprì nel mezzo proprio davanti a lui. E il pastore sentì una voce di donna che diceva: Piccola, vai a vedere cosa succede sulla duna. Una ragazzina salì.

– Madre, lei dice, vedo un pastore seduto su un ciuffo di brughiera.

– Digli di scendere qui, riprese la voce. E che lui non abbia paura che il suo gregge se ne trovi male.

La ragazzina risalì.

Pastore, lei dice, lei deve venire con noi senza essere preoccupato per le sue pecore.

“Dopotutto, lui pensò, si muore solo una volta e comunque voglio vedere questo!” E lui scese. Appena fu entrato che la duna si racchiuse dietro di lui. Trr! Tutto questo l’intrigava molto ed egli guardava spesso in alto.

– Mi segue, dice la ragazzina, nessuno le farà del male. Il pastore giunse nella stanza di un alloggio tanto bello che non aveva mai visto qualcosa del genere: qui c’erano specchi, là stoviglie e vasi; bei mobili da un lato, mobili ancora più splendenti dall’altro: l’uomo ne era abbagliato. Tutto era pulito, tutto splendeva come l’acqua chiara al sole.

In uno specchio, il pastore vide una landa profonda, dove dei pastori erravano sui loro trampoli, dietro i greggi; lui vedeva tutto quello come se fosse su terra.

Poi, scorse un gruppo di donne che ridevano di fronte a lui, così belle e graziose che era un piacere di vederle. Ce ne era una, giovane, che portava nei capelli una corona intrecciata di brughiera e di ginestroni fioriti.

Pastore, lei dice, siediti. Hai qui tutto quello che ci vuole per ristorarti e riposarti. Non ti preoccupare per le tue pecore: non hanno bisogno di te per sorvegliarle.

E le fate gli servirono uno stupendo spuntino, con una profusione di pietanze squisite a cui il pastore non aveva mai assaggiato.

E lui di pensare: “se mai sono stato sazio nella mia vita, è stato questa volta qua…”

Quando il pastore ebbe mangiato a volontà, le fate lo portarono a un letto tanto bello che lui non osava sdraiarsi .

“Non è più il giaciglio dell’ovile, lui pensò, e non ci prenderò delle zecche!”

E si addormentò. Quando si svegliò, si rimise a leggere, e a leggere ancora nel suo libro, a leggere tanto che riuscì a fare aprire la duna e se ne andò.

Il gregge era al posto dove l’aveva lasciato, al completo e bene nutrito.

 

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E, perbacco! da questo giorno dove lui conobbe il cammino, prese l’abitudine di passarci. C’era là dentro una fata giovane e carina, carina come uno specchio. E loro si innamorarono tanto che gli altri pastori non rividero non molto il pastore alla superficie della landa. Ma dove ti stai nascondendo? loro chiedevano. Ti perdiamo per giorni interi! Ma loro potevano parlare e chiedere, lui taceva. Il pastore sorvegliava ancora di tanto in tanto il gregge, bene vestito e le tasche piene di soldi. E il gregge prosperava più degli altri greggi: mai le sue pecore si mescolavano con le altre, che lui fu presente o no; se incontravano altri greggi, deviavano o li attraversavano senza mescolarsi. Tutto questo faceva parlare; ci furono due pastori più furbi degli altri, che vollero sapere cos’era questo mistero, e si misero a spiare il pastore. Una sera, lo videro andare verso la duna di Boumbét; E il pastore poteva fare di tutto, abbassarsi, nascondersi nei cespugli, gli altri lo inseguivano da lontano, da un ovile all’altro; giunsero in tempo per vedere il pastore si infilare nella duna. Ne era abbastanza e l’indomani, già prima lo spuntare del giorno, tutti gli abitanti della Grande Landa spingevano dei gridi che si sentivano fino a Bordeaux.

Ma quando il pastore volle tornare alla casa delle fate, la duna non si mosse più di un vecchio tronco di pino; restò come era prima e tale che è sempre rimasta, un poggio sabbioso, sparso di brughiera e di serpillo con il cammino tutto bianco. e lui, povero pastore, per quanto potesse leggere, mormorare imprecazioni, e versare tutte le lacrime che volle. Non ci torna mai più dentro. Povero era stato, povero era ridiventato. Eppure, il pastore non volle mai lasciare il miserabile ovile sulla duna di Boumbét. Così senza mai sposarsi; non frequentava nessuno, non aveva altro focolare e letto di quelli dell’ovile di Boumbét. Lontano dagli uomini. Lo si vedeva di notte, al chiaro di luna, si diceva, a vagare sulla duna e urtare il suolo con i suoi trampoli, come uno che vuole farsi aprire una porta.

Le fate della duna di Boumbét. Fiaba delle Lande di Guascogna raccolta da Félix Arnaudin.

 

Paesi Baschi: In cui l’autore di questo blog vi racconta una fiaba a proposito dei Mamurrak!

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Sempre sabato scorso nei Paesi Baschi. Pomeriggio ad Ainoha sul confine tra la Francia e la Spagna. Secondo me, Ainoha è semplicemente il più bel paese del sud della Francia. Ma noi, bordolesi, passiamo ad Ainoha soprattutto per andare a Dantxaria a due passi dove facciamo il pieno di sigarette, alcol e salumi. Lo scatto è stato preso dal camposanto di Ainoha perché volevo parlarvi di una bellissima tradizione basca di una volta che riguardava la morte e un certo tipo di insetto. Poi ho cambiato idea e, in questa bellissima giornata soleggiata, ho deciso di raccontarvi una favola basca che parla di altri insetti e che non è senza rapporto con il post che avevo previsto e che sarà pubblicato, se me lo ricordate, probabilmente per Ognissanti.

Prima la favola, devo dirvi due parole sui Mamurrak baschi. I Mamurrak (hanno diversi nomi in basco) sono dei geni della mitologia basca che possono essere catturati la notte che precede la San Giovanni ponendo un astuccio per aghi aperto su un cespuglio. Certi dicono che sono degli insetti tipo delle mosche, altri pretendono che sono addirittura degli uomini minuscoli che portano dei pantaloni rossi. Come tutti i geni, i mamurrak possono essere utili o dare fastidio come lo racconta la favola sotto:

A casa Mendiondo, c’era un padrone che era un gran pigrone, eppure i lavori della sua fattoria erano sempre terminati i primi. Una mattina, in appena un’ora, il prato sotto la casa si trovò falciato; una domenica, durante il tempo della messa, tutto il frumento di un campo fu tagliato. Tutta la gente era sorpresa perché non si vedeva mai un bracciante a casa sua. Anche la moglie del padrone si fidava di lui. Una domenica come lui andava in chiesa, egli nascose qualcosa in un cespuglio. La moglie lo vide da lontano e fu curiosa di sapere cos’era. Lei  scoprì un astuccio per aghi. Lo aprì e ne uscì una decina di mosche. Queste mosche le andarono agli occhi e alle orecchie chiedendo: “Che fare? che fare? che fare?”. Sbalordita, la donna disse: “Rientrate nello stesso buco” e subito le mosche rientrarono nell’astuccio. Lei lo racchiuse e lo rimise al suo posto. La moglie non mise molto tempo a raccontare al marito quello che le era successo, e, lui, confessò che erano queste mosche che facevano tutti i lavori della fattoria. A partire da questo momento, le mosche effettuavano tutto il lavoro, qualunque sia, che la donna loro dava. Un giorno, le mosche la tormentavano dicendo rumorosamente: “Lavoro! lavoro! lavoro!” La moglie del padrone stanca diede un setaccio alle mosche e disse: “Andate e riempite la botte vuota che si trova in cantina portando dell’acqua dentro questo setaccio dalla rete del molino, poi la metterete al prato sotto casa”. E lei di pensarsi tranquilla per qualche ora. Dopo un breve momento, avendo finito questo lavoro, le mosche tornano e si rimettono a cianciare: “Lavoro! lavoro! lavoro! lavoro!”. La moglie ne potendo più di queste mosche, andò a trovare il marito e disse: “Che miracolo è questo? Dobbiamo sbarazzarsi di queste mosche! – Sì, rispose il marito, ma purtroppo dobbiamo a ognuna uno stipendio. – Ci sono dieci oche che vivono sotto il tetto ; diale loro, disse la moglie.” (n.b: la lingua basca non conosce il tu). Appena la frase fu pronunciata che le oche volarono via a gran voce verso le nuvole, e le mosche di Mendiondo non riapparvero più.

La ragazza di Guascogna che salvò il suo paese grazie ai suoi gatti!

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Gers. La Romieu, Collegiata San Pietro.

In un altro post, vi ho raccontato la storia di Fleurette, una ragazza di Guascogna che flirtò tragicamente con un Re di Francia. Oggi, vorrei vi raccontare un’altra storia di una ragazza di Guascogna, quella di Angéline che salvò il suo paese grazie ai suoi gatti! Notate che non sono fiabe o leggende, ma storie vere che sono accadute nel bel paese di Guascogna! E se visitate un giorno la stupenda cittadina di La Romieu e la sua bellissima collegiata classificata al patrimonio mondiale dell’Unesco, non siate sorpresi di tutte queste sculture di gatti che vedrete intorno alla piazza del paese. Sono opere di Maurice Serreau e ricordano la storia di Angéline e dei suoi gatti.

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Nell’anno di grazia 1338,  in un piccolo paese di Gascogna chiamato La Romieu, famoso per la sua bellissima collegiata edificata venti anni prima, vivevano felici Vincent e Marinette. Lui faceva il boscaiolo e lei lo accompagnava nella foresta e raccoglieva frasche per fare dei fastelli. Lavoravano duro duro, ma con qualche gallina, il maiale, la verdura e la frutta del giardino, c’era sempre qualcosa da mettere sulla tavola. Erano sposati da tre anni, quando Marinette diede alla luce una bambina che chiamarono Angéline. Ahimè, Vincent fu schiacciato da un albero che stava abbattendo. Marinette, inconsolabile, si lasciò deperire e due mesi più tardi, fu ritrovata morta stingendo tra le braccia la piccola Angéline. La bambina fu adottata da una vicina e crebbe con i suoi figli come se fosse la loro sorella. Angéline manifestava un’attrazione misteriosa per i gatti. A tal punto che c’erano sempre due o tre gatti intorno a lei e che dormivano anche nel suo letto; e la bambina condivideva anche la sua scodella con i suoi gatti.

Angéline, con il passare del tempo, diventava una bella ragazza che aiutava i suoi genitori adottivi ai lavori dei campi, sempre accompagnata dai suoi gatti. L’anno 1342 e i due anni successivi, l’inverno fu aspro, e la primavera e l’estate tanto piovosa che non fu possibile di seminare nei campi. Seguì una grande carestia e nonostante la distribuzione dal signore Arnaud delle riserve della collegiata, gli abitanti di La Romieu non ebbero più niente a mettere sotto i denti. Pensarono allora ai gatti, tanti numerosi nel paese, e ne fecero della fricassea.

I genitori di Angéline, sapendo quanto lei amava i suoi gatti, accettarono che lei tiene un gatto e una gatta a condizione di nasconderli bene perché sarebbero finiti in padella con tutti questi vicini che crepavano di fame. Angéline chiudeva il giorno i due gatti in soffitta, e la notte li lasciava uscire per cacciare qualche preda. Ma la carestia si accentuava e molta gente moriva. Angéline e i genitori sopravvivevano mangiando delle radici e dei funghi trovati nei boschi e così poterono sormontare questo triste periodo e dei tempi più clementi consentirono di nuovo di raccogliere di che vivere.

Ma a La Romieu, dove ormai non c’erano più gatti, gli abitanti erano confrontati a un altro pericolo: i ratti che avevano proliferato e che minacciavano le raccolte. Gli abitanti di la Romieu si lamentavano e non sapevano come fronteggiare questa nuova calamità. Non solo i ratti avevano proliferato, ma anche i gatti di Angéline che si ritrovava con una ventina di gattini in soffitta e questo gli abitanti del paese non lo sapevano. Angéline, che aveva perdonato agli abitanti di la Romieu il loro gusto per la fricassea di gatto, annunciò la sua intenzione di lasciare i suoi gatti nelle vie di La Romieu e che gli abitanti del paese potrebbero adottarli. I gatti fecero un festino di tutti i ratti di La Romieu e così Angéline salvò la cittadina di una nuova calamità. Ma la storia non finisce qui perché si dice ancora che con il passare del tempo, Angéline assomigliava di più in più ad un gatta fino a prendere addirittura la sembianza di una gatta…