Gironda: Un giorno a Bazas!

Bazas a Sud di Bordeaux è una cittadina sulla via inglese del cammino di Compostela, l’ultima tappa, dicevano i pellegrini di una volta, prima di lasciare la Civiltà per andare a morire di malaria nelle maledette lande paludose di Bordeaux. Fine del pellegrinaggio. Amen. Si dice che una vasate (un’antica abitante di Bazas dal nome della tribù celtica che abitava il paesello ai tempi antichi) sarebbe andata – chissà perché – fino in Palestina, poi sarebbe tornata nel paesello di Bazas con uno straccio esciumpato (dall’antico verbo bordolese “eschompar cioè inzuppare) dal sangue di un certo Giovanni Battista. E lei insisteva dicendo che ci voleva costruire un duomo per dare uno scrigno a questa gueille (straccio in bordolese). Notate che gli abitanti di Bazas non sono per niente contrari e hanno costruito per soddisfare la fantasia della loro concittadina, il duomo di San Giovanni Battista. E quindi se vedete delle raffigurazioni di testi su piatti d’argento ovunque nel paesello, non vi spaventate, è per ricordare l’episodio della vecchia che riportò dalla Palestina questo souvenir macabro e insanguinato. Notate ancora ma non credo ci sia un rapporto, che Bazas è il paese di una razza bovina che dà il miglior manzo del mondo. Dimenticate il manzo di Kobe, è quello di Bazas il miglior dell’universo! E quindi c’è una festa del bue grasso a Bazas, ogni anno, il giovedì prima di Mardi Gras. Gli allevatori fanno passeggiare le loro bestiole piene di corone di fiori il giorno prima di essere inviate al mattatoio. Oggi, non le uccidono più in pubblico dopo la sfilata come una volta. Cos’è il progresso! Dunque  vi ho raccontato perché il Duomo è dedicato a un tizio che ha letteralmente perso la testa, del manzo più buono del Mondo e ora vi racconto di Crasso. Di questo Crasso, Giulio Cesare ne ha la bocca piena nel suo De Bello Gallico, era uno dei suoi luogotenenti o qualcosa del genere. Allora questo Crasso si ritrovò in Aquitania a divertirsi un mondo, lontano da Roma. E il vecchio che faceva la guerra in Gallia, lo tormentava a scrivergli delle domande tipo: allora la conquista dell’Aquitania? Pensate un po’ come il Crasso aveva voglia di smettere di far bisboccia per uccidere i suoi compagni di sbevazzata! Dopo un’ennesima notte di movida nei dintorni di Bazas, quel Crasso ricevette una nuova lettera di Cesare. E, l’altro, il Crasso, esasperato, gli scrisse una frottola tipo: ho conquistato Bazas, la città è caduta con i suoi settantamila abitanti. Pensate un po’! Al massimo il tizio sarebbe riuscito a impadronirsi delle chiavi di un bar della piazza del comune! Ah questi italiani, sempre a esagerare in tutto! Ma l’altro, il vecchio, ci crede a questa storia e lo scrive nel suo libro! Andate a capire! Già che oggi Bazas ha meno di cinquemila abitanti, immaginate un po’ durante l’Antichità! Il popolo dei Vasati e Bazas dovevano essere tre case e due famiglie perse nelle lande infette di Bordeaux!  Vi giuro che a Bazas hanno avuto tutte le sciagure dell’Universo durante la storia! Quasi un record mondiale! La cittadina è stata invasa dai Galli, dai Romani, dai Visigoti, dai Saraceni, dai Franchi, dai Francesi, dagli Inglesi, dai Papisti, dagli Ugonotti, dai Monarchici, dai Rivoluzionisti. Le chiese di Bazas sono state distrutte novantanove volte e ricostruite novantanove volte! Ma cos’è Bazas nel fondo? Una cittadina su un isolotto roccioso. Una via; una piazza centrale con le sue arcate medievali; il duomo; la chiesa di Notre Dame dau Mercandilh (cioè del mercatino), fondata da San Marziale,  che è condannata e di cui si fa il giro; il piccolo giardino del vescovo; case brutte e altre belle come la strana casa dell’astronomo (capite l’astrologo) con gli astri (Luna, Sole, Cometa)  scolpiti sopra le finestre della facciata; le mura medievali. Ci si va il sabato per il mercato sulla piazza del comune per comprare prodotti tipici del Sud-Ouest. Ci si mangia e si beve prima di continuare il viaggio verso Nord o verso Sud. Insomma non c’è differenza con il Bazas dei tempi passati, tranne che le lande hanno lasciato posto alla più grande foresta d’Europa. Sotto le arcate, leggo un articolo, tutto ingiallito, del giornale Sud-Ouest affisso sulla vetrina di una pasticceria, l’articolo dice che la pasticceria ha vinto il concorso mondiale della migliore meringa. Più lontano, mi siedo alla terrazza di un bar, al riparo dal sole, sotto le arcate. Il bar sembra una grotta, un omone beve una birra artigianale alla tavola accanto e mi dice che non è la prima della giornata. Lui fa il giro dei bar  secondo quelli che sono più esposti alla brezza che soffia sotto le arcate. Secondo lui, vince quello sotto la “casa dei lavoratori”. Il padrone non si fa vedere, l’omone dice che il tizio sta preparando la sua sangria per la serata. Pensavo a un caffè senza zucchero, ma una sangria mi sta meglio. Una sangria per favore! grido verso la grotta. Il padrone dall’interno mormora qualcosa che non capisco. Guardo dall’altro lato della piazza, una coda che si è formata sotto l’arcata lato Municipio. L’omone dice che è un negozio di gelati all’italiana, che è la cosa che mancava il più a Bazas e che ormai con questi gelati all’italiana sono in paradiso. Sorrido pensando che il gelato all’italiana è completamente sconosciuto in Italia. Buoni? chiedo. Eccome, risponde l’omone, ne ho mangiato uno dieci minuti fa! Il padrone mi porta la mia sangria, chiacchieriamo pigramente, di tutto e di niente, ma soprattutto di questa storia di Covid-19. Il padrone dice di essere contento di aver potuto chiudere un po’, che aveva bisogno di vacanze. Non vi dico la noia che provo! Poi, qualcosa cade da una delle finestre della casa dell’astronomo, è la biancheria della vicina sopra che stava asciugando al sole. Un paio di mutande si pone su un ombrellone del bar accanto che ha la terrazza che morde sulla piazza. L’omone e il padrone ridono come dei matti, tentano di ricuperare le mutande. Li capisco, forse è il solo imprevisto successo in questa calda settimana di luglio. Ne hanno per la giornata a parlare di queste mutande. Strano di essere sotto la casa dell’astronomo, mi dico. Mi ricordo vagamente di qualcosa, una storia orrenda del tempo passato. Lascio i due uomini  fare gli adolescenti, per cercare sul mio telefono che contiene più della Biblioteca di Alessandria. Ah, ecco, la cosa è successa a Bazas il 11 febbraio 1637…..

Per dire il vero sull’esecuzione che è stata eseguita nella città di Bazas, presso la città di Bordeaux, il 11 febbraio di questo anno 1637 dei tre Stregoni e maghi di cui l’uno si chiamava Galeton, l’altro Jassou, e il terzo Pautier, contadini e rustici di età per il più giovane di circa sessant’anni. Pautier per la sua maledetta magia e stregoneria perpetrava, giornalmente, malefici abominevoli e, in particolare, lanciò una fattura a una donna molto onesta che le fece tanto turbare i sensi che correva come rabbiosa attraverso i campi; e quando era chiusa in qualche stanza dove si poteva a malapena trattenerla, gettava urli terribili che erano la causa per cui la gente del paese andavano a vederla a casa sua con grande compassione.

Alcuni padri Recolletti ci andarono più volte, vedere questa giovane donna tormentata, la quale gridava a squarciagola che vedeva i detti tre stregoni (designando loro dai loro propri nomi) accompagnati da alcuni Diavoli e Demoni orribili. E anche gli assistenti vedevano allora volare pietre senza poter determinare la loro provenienza. Il rapporto di questo spettacolo essendo venuto agli orecchi dei Signori della Giustizia, loro si trasportarono nella casa della donna, e avendo raccolto il lamento della donna così afflitta in cui lei dichiarava che Galeton le aveva detto che era Pautier che le aveva lanciato la fattura, allora si decise di farli arrestare. A proposito di ciò, i Signori della Giustizia si portarono sui luoghi, e afferrarono il detto Galeton e il detto Pautier e fecero portare loro in carcere. L’indomani si arrestò anche Jassou. La Giustizia volendo istruire ampiamente questo processo criminale su una materia così prodigiosa, deliberando di udire loro seriamente sulle loro accuse, portarono i tre Stregoni, l’uno dopo l’altro, davanti al loro tribunale dove loro ci andarono a testa alta. Erano decisi come i più innocenti degli uomini del mondo. tuttavia furono interrogati tante volte che cominciarono a vacillare ea mutare. Perché Galeton che era il più anziano essendo accusato di magia fu il primo a cui fu applicato la Questione (nb: ho italianizzato la parola francese Question che è un tipo di tortura usata dall’inquisizione. Questione ordinaria, poi si passa alla Questione straordinaria per i più resistenti, applicare la Questione a qualcuno/torturare qualcuno). Gli si mise pesi sul corpo, sopportò alcuni colpi di frusta con una grossa corda, tanti che tre corde si ruppero sulle sue braccia, e quando era sul banco della Questione il suo Demone si presentò a lui e si pose sulla sua guancia, essendo stato rilasciato. Il Signor relatore lo interrogò, Galeton dichiarò che era vero che era il suo Demone che gli chiudeva la bocca e che si chiamava Xibert, e vedendo che era minacciato di nuovo di essere rimesso più forte alla Questione, ed esattamente interrogato, confessò tutto, dichiarò che era colpevole e convinto del crimine di cui veniva accusato, disse che era Pautier che aveva lanciato la fattura alla donna afflitta. Jassou essendo ugualmente applicato alla Questione, la sopportò  così aspramente che non era possibile che la cosa non sia soprannaturale. Finalmente, si decise di scaldare i suoi stivali (gli furono messi dei tizzoni accesi negli stivali). Al primo colpo di conio che gli venne dato, gridò di essere lasciato in pace ed è quello che si fece. Jassou confessò che era stregone, e che si era recato più volte al sabba dove aveva visto Pautier, confessò anche che aveva dato e commesso alcuni malefici di magia e stregoneria, e ne accusò altri delle loro cabale.

L’indomani si procedette all’interrogazione di Pautier, il quale essendo davanti ai Signori non volle confessare niente anche quando fu messo in presenza dei due altri, i quali mantennero che era lui che aveva lanciato la fattura a questa donna afflitta, e che era andato più volte al sabba con loro. Pautier negò tutto e avendolo applicato alla Questione, gli si diede l’ordinaria e la straordinaria. Ma più la Questione veniva applicata, più Pautier gridava che era innocente. Vedendo che non si andava lontano a interrogarlo e ad applicargli la Questione. E visto che questo maledetto stregone aveva, di continuo, il suo Demone che gli teneva la bocca chiusa per impedirlo di confessare il suo peccato.  Mentre gli altri erano interrogati, si fecero venire alcuni di quelli che erano tormentati e afflitti dalle loro fatture nella camera criminale per essere presentati agli stregoni. E appena arrivarono, furono tormentati e oppressi, facendo segni e gridi terrificanti, dichiarando che vedevano una masnada di Demoni orrendi tutto intorno dei detti stregoni, di cui l’uno fece segno che era Pautier che faceva il più di male. Avendo dunque, i Signori Giudici e gente del Re, lavorati diversi giorni all’istruzione del processo, e vedendo un così grande numero di prove e un così grande numero di testimoni contro di loro, diedero Sentenza per la quale loro furono condannati a fare onorevole ammenda nudi in camicia, la corda al collo, inginocchiati, tenendo ogni di loro una grossa fiaccola di cera ardente, e di chiedere perdono a Dio, al Re e alla Giustizia; poi di essere portati fuori città, in un luogo chiamato “le Arene” e di essere, ognuno di loro attaccato a un palo, che per quell’effetto saranno eretti per loro, e le loro ceneri buttati al vento.

Essendo giunti al luogo destinato per i supplizi, furono legati ognuno al suo palo, poi circondato di un potente rogo di legna, al quale non si mise fuoco subito. I padri Recolletti che assistevano i tre stregoni, fecero loro sincere rimostranze, per tentare di salvare le loro anime, incitando loro di scaricare interamente le loro coscienze, e visto che avrebbero ancora abbastanza tempo, per aver grazia e misericordia dei loro peccati e mettere le loro anime in pace, le quali erano in via di dannazione se morissero nei loro peccati. Quel miserabile Pautier non volendo mai confessare niente, ed era il Diavolo che non l’aveva mai abbandonato e gli aveva, di continuo, chiuso la bocca di paura di confessare qualcosa. I due altri vedendo la perseveranza e maliziosa tenacia di Pautier non vollero dire niente di più che quello che avevano già confessato ai Giudizi. Vedendo che non si poteva ottenere niente da loro. Al segnale dato, il Boia mise fuoco al rogo, e non appena prese fuoco, si udirono (il quale appena fu infiammato, che si udirono) gridi, spaventosi, tempeste e temporali si scatenarono in aria, tifoni di fuoco si lanciarono fuori dal rogo, fantasmi apparvero in mezzo alle fiamme facendo azioni così spaventose e orribili che diedero un così grande terrore, che fecero ritirare in fretta più di due mille persone che assistevano all’esecuzione e anche il Boia di scappare finché la legna fu consumata. La quale dovette essere aumentata per ridurre i corpi dei tre miserabili in cenere; corpi che puzzavano tanto di infezione che non si poteva credere che una cosa simile potesse esistere. I corpi misero più di ventiquattro ore a consumarsi, poi furono buttati al vento. 

Alzo gli occhi, i due uomini stanno ancora scherzando a proposito delle mutande. Il sole splende. Fa fresco sotto le arcate. Aspetto che chiudono la discussione per chiedere una seconda sangria…..

 

Bordeaux: Breve storia di un capitano negriero di Bordeaux!

L’altro ieri, durante un dibattito televisivo, un uomo diceva che ci vorrebbe cancellare tutti i numerosi segni del passato negriero di Bordeaux, che tutte queste vie che portano nomi di armatori, di marinai, di parlamentari bordolesi che hanno partecipato alla tratta dei neri sono un’offesa per l’umanità….Un altro, gli rispondeva che non ci voleva cancellare un bel niente perché quei nomi ci ricordano la storia sporca della nostra città… Poi, tra i nomi delle vie citate, ho sentito il nome di Desse, allora mi sono detto che ci vorrebbe forse cominciare per raccontare chi era questo capitano negriero e perché la via porta il suo nome, non perché il tizio ebbe un ruolo attivo nella tratta dei neri, ma perché egli  salvò tutto un equipaggio olandese il 17 luglio 1822. Non è un post per riabilitare la persona del capitano Desse che era un bordolese tipico del suo tempo, è un post per dire che la Storia è raccontare tutto, il brutto e il bello….

Pierre Desse (1760-1839), medocchino di Pauillac, si imbarcò giovane come allievo ufficiale su navi negriere che facevano il commercio triangolare tra Bordeaux, l’Africa, la Martinica, e Saint-Domingue (Haïti). Egli combattette presso Lafayette durante la guerra d’Indipendenza americana. Poi, lo troviamo luogotenente sulla nave negriera Arada tra il 1787 e il 1788. Poi capitano di tre spedizioni negriere dopo 1789; nel 1791, tra la Gambia e Gorea e dalla Sierra Leone a Cuba e a Saint-Domingue, nel 1792, tra il Senegal e i Caraibi. La schiavitù e la tratta di carne negra vennero abolite in Francia nel 1794, ma se pensate che questi dettagli importavano alla città di Montaigne e di Montesquieu, sbagliate completamente! È la tratta negriera continuò a Bordeaux come prima la rivoluzione Francese. Pierre Desse venne arrestato appena sbarcato a Bordeaux, dopo una spedizione nel Senegal dove aveva fatto il pieno di “doni patriotici” per il suo armatore di suocero. Una farsa di processo e Pierre Desse fu liberato e ricevette anche gli onori della città e il comando di una fregata per andare a stuzzicare gli inglesi che lo fecero prigioniero. Verso i primi anni dell’Imperio, Pierre Desse comandò l’Incroyable, una nave corsara bordolese. Catturato di nuovo dagli inglesi, venne liberato per aver salvato una donna che stava annegando. Poi, Pierre Desse tornò a fare il suo mestiere di capitano negriero visto che Napoleone aveva ripristinato la schiavitù e anche quando la schiavitù fu definitivamente abolita nel 1815, non cambiò assolutamente niente per la città di Bordeaux, i suoi mercanti, armatori e abitanti dai più umili ai più ricchi che continuarono a organizzare quell’ignobile commercio fino all’anno 1826. Pensateci bene quando venite a Bordeaux e che sentite i bordolesi che vi raccontano dei loro Montaigne e Montesquieu di cui ne hanno pieno la bocca, la verità sui nostri antenati non fu così rosa.  Nel 1822, Pierre Desse parti con il bricco La Julia da Bordeaux per l’isola Borbone (La Riunione)…..

Cari lettori e care lettrici, soffrite il mal di mare? No, lo dico, perché ora, vi porto al  museo delle Belle Arti di Bordeaux per vedere l’immenso quadro dipinto da Jean Antoine Théodore de Gudin intitolato: Tratto di dedizione del capitano Desse. Ovviamente ci vorrebbe venire a Bordeaux per osservare tutti i dettagli del dipinto. Siamo in piena tempesta, una tempesta che scoppia in piena giornata come l’indica il raggio di sole che trafigge il cupo delle nuvole per illuminare la tragedia infernale che si sta svolgendo sul ponte del Columbus, una nave olandese. Non siamo lontano dalle coste dell’Africa di Sud. Il movimento e il colore delle onde, la schiuma, il gabbiano ci indicano che siamo a prossimità di banchi di sabbia. Il Columbus è in perdizione con quei muri d’acqua che mugghiano, che si abbattono e che hanno già sconquassato gli alberi della nave. Tutti i novantuno naufragati sono sul ponte, tutti tentano di afferrare qualcosa per non essere precipitati in acqua. La nave prende acqua da tutte le parti. Tutta questa gente sta per annegare da un momento all’altro e si può quasi sentire i gridi dei disperati. Allora mentre tutto sembra perso in quel giorno del sette luglio 1822 per l’equipaggio del Columbus, spunta, scendente una montagna d’acqua il bricco La Julia del bravo capitano Desse che rischia tutto, l’equipaggio, la nave, la merce, per portarsi al soccorso del Columbus. Una volta, due volte, cento volte, La Julia tenta di avvicinarsi al Columbus, cento volte La Julia è respinta dagli elementi scatenati. Un giorno, due giorni, tre giorni, sei giorni, il capitano Desse lotta contro le onde e il vento, finalmente, il 13 luglio riesce ad avvicinarsi abbastanza del Columbus per trasferire a suo bordo, sani e salvi, i novantuno olandesi…

 

L’episodio fu raccontato da tutta la stampa europea, il capitano ricevette una medaglia, questo dipinto per ricordare la dedizione del capitano Desse fu ordinato dal ministero della Marina al pittore Gudin. Eppure il capitano Desse fu processato dall’armatore della Julia e fu condannato a una multa – pagata dal governo olandese – per aver rischiato la merce a bordo del bricco. A difesa del capitano Desse, il capitano olandese Greveling e il luogotenente Gerlings comandante dell’esercito a bordo del Columbus scrissero lettere per ringraziare il capitano Desse e il suo accanimento a salvarli.

Si legge sotto la penna di Gerlings a data del 22 agosto 1822:

“È così che fermato durante sei giorni in mezzo a pericoli orrendi, di cui la sua sola generosità gli impediva di ritirarsi, sprezzante i suoi interessi i più cari, la cura della sua propria salvezza, il capitano Desse, riuscì a strappare alla morte novantuno uomini, che non erano nemmeno i suoi amici, che non erano nemmeno i suoi concittadini.”

Lettera del capitano Greveling del 22 agosto 1822 indirizzato a un giornale:

Intrepreto dei sentimenti del mio equipaggio e dei miei passeggeri, come lo è il signor Gerlings delle sue truppe che lo accompagnavano, vi preghiamo, signor redattore, di iscrivere nella gazzetta di cui siete editore, il racconto delle nostre sfortune, come l’espressione del sentimento profondo di riconoscimento per il bravo capitano della Julia.Possa il nome di quell’eroe dell’umanità incidere nella memoria di quelli che leggeranno quella lettera quanto lo è nei nostri cuori! Possa quel nome essere presto esposto all’ammirazione della Francia e dell’Olanda, ricordare a tutti l’onore e il modello dei marinai di tutte le nazioni…..

Ora, cari lettori e care lettrici, ne sapete molto di più della stragrande maggioranza dei bordolesi, sapete perché c’è una via dedicata al capitano Desse a Bordeaux. 😉

 

 

Bacino di arcachon e covid-19.

Il vantaggio del mar oceano nei confronti del mar mediterraneo? Da noi, due volte al giorno, tutto è disinfettato grazie alle maree!

Durante il confinamento, mentre certi si studiavano l’inglese grazie a delle applicazioni su internet, io mi sono studiato, in dilettante, la lingua dei nonni dentro vecchi libri. Risultato: un disastro. Ora, faccio un pasticcio tra l’italiano e il guascone. Di cui il testo sotto!

Sheitat all’ombra di un vecchio tambarin, osservo un mainatge che rossiga un secchiello più grosso di lui. Sulla diga, una dauna gita, per la centesima volta, la stessa pigna puzzolente al suo cane che non sembra voler mai stancarsi di questo gioco. Lo dròlle si è fermato e ora, eccitato, trauca la hanha alla ricerca di qualche tesoro. Poi, dopo meno di cinque minuti, si mette a crider: ey gahet un gran, nonna! La nonna che ravassejava sulla sabbia dice al nipote di smettere di trementar i granchi e di amassar piuttosto tes che essi non pinzano. Mar venenta. Il bacino d’Arcaishon sembra completamente despudat. A patto di aver mastons, si potrebbe forse chambolhar fino alla montagna d’Arcaishon sull’altra riva apei montar la ròc Blanca. Il mio sguardo segue la linea del ribatge sud e posso quasi respirare lo perhum dei grans pins delle lanas. Poi, gaiti verso Nord, l’isla das audeths e i suoi cabans chancats in mezzo alla laca, i batèus ajacats sulla melma. la penisola dau Herret con i suoi paesi cachats ai piedi dei piqueys, il far roge e blanc nel lontano, gaiti quasi truncas a la mar. La campana della gleyza d’Endarnòs barlumpeja nonché i mas dei batèus che tringlen accarezzati dal vento. Le lirondas voltigiano harlupent marmauches. Se fossi più intelligente, saprei che dus cops al giorno c’è la malina e avrei letto il giornale per conoscere gli orari, ma cosa aspettare di un tizio del Médoc? Niente, ovviamente! Va bene, ancora un’ora e forse potrei chorilhar. 😁😁😁

Sheitat/seduto, tambarin/tamerice, mainatge/bambino, rossiga/trascina, dauna/donna, gita/lancia, dròlle/persona (termine affettuoso), trauca/scava, hanha/fango, crider/gridar, ey/ho, gahet/preso, gran/granchio, trementar/tormentare, amassar/raccogliere, tes/conchiglie, mar venenta/bassa marea, Arcaishon/Arcachon, despudat/vuotato (despudar/vuotare uno stagno), mastons/racchette che permettono di camminare sul fango, chambolhar/camminare nell’acqua per divertirsi, apei/poi, montar/salire, ròc blanca/duna del Pilat, ribatge/sponda, perhum/profumo, lanas/lande, Isla das audeths/isola degli uccelli, cabans chancats/capanne su palafitte, laca/lago, batèus/barche, ajacats/sdraiati, Herret/Ferret, cachats/nascosti, piqueys/dune, roge/rosso, truncas a/fino a, gleyza/chiesa, Endarnòs/Andernos, barlumpejar/sonare, mas/alberi, tringlen/tintinnano, lirondas/rondini, harlupen/inghiottono, marmauches/insetti, dus cops/due volte, malina/marea, chorilhar/guazzare.

 

 

Médoc: Indovinello davanti al Mulino Bianco!

Fa molto tempo che non ho proposto un indovinello. Dunque dovete indovinare a cosa servono queste strette passerelle di metallo che corrono sotto certi ponti del Médoc. Vi do un indizio indiretto sotto con la bestiola che mi ha minacciato prima di attraversare la via che porta al Mulino Bianco per raggiungere le sue simili che pullulano nei nostri fiumi. Se vivete alla campagna, l’indovinello non è affatto difficile. C’è da vincere una favola che inserirei nel prossimo post se ci fossero tre o quattro risposte (anche false). 

Bacino di Arcachon: La Duna del Pilat.

La Duna Bianca

Una volta, nessuno mi conosceva. Partoriente

Giacente sul fondo dell’Oceano tale un’isola inghiottita,

Il mio grande grembo di sabbia riparava a migliaia

Pesci impauriti dalle brusche mandibole focene.

 

Però, ogni volta, che verso la terra una tempesta faceva derivare

Le onde pesanti, la mia groppa prosperava

Di venti bracci; e un giorno i pescatori di Boïos

Mi videro sorgere scricchiolando alla superficie delle acque stanche.

 

E sempre verso il cielo, mi ergevo, lunga e larga,

E accecante di bianchezza sempre.

Irosa mentre accosto alla riva,

Per sfondarmi, da ogni lato,

L’Oceano mi colpisce.

 

Sforzi inutili: dolcemente traccio il mio cammino,

Alzando la testa sopra il vento marino.

E maestra dell’Abisso che piove, intorno a me,

i suoi vortici di schiuma. Tocco le sponde del Moulleau.

 

Dopo duecento anni di battaglia amara,

Ho visto morire Boios, e nella sua grande conca chiara,

Sentito i gridi guerrieri dei Vandali incendiari,

E la preghiera di cento poveri pescatori,

 

Salvati da Nostra Dama, una sera di temporale.

Alcuni secoli più tardi, un Grand’uomo nasceva

Che con il pino robusto e la canna gracile

Volle intralciare i miei balzi di gigante.

 

Delle dune, mie sorelle, che conquistavano il Paese.

Ed ecco che i pini e le canne si radicavano

Dentro le nostre viscere: E mi addormentai come le mie sorelle

Sotto le ombre di un bosco prodigioso.

 

Però una bella mattina d’estate, un ronzio,

Gioioso e continuo, si sentì e mi risvegliò.

E, chiedendo cos’era al bosco pinoso

Gli alberi mi risposero: “È il canto delle cicale”.

 

Vedendomi in mezzo a tanta ombra e a tanti  canti,

Allora gridai: “Dolcemente! O pinete giganti!

Perché non sta a voi di ombreggiare la mia vecchia groppa,

Ma sono io che devo ombreggiare le vostre giovane chiome!

 

“Dolcemente! perché non voglio perdere il mio nome di Duna Bianca!

Non voglio vedere su di me né erbe né rami.

Per la mia bellezza, ho bisogno soltanto di sole, e niente altro che il sole!”

E tornai a ergere la mia sabbia verso l’azzurro,

 

Tanto alto che oggi stesso, alla mia cima potete vedere

Alcune chiome di pini come cappelli spettinati.

E che presto  inghiottirò: Ed esse rivedranno la luce

Che quando tutti i miei grani saranno polvere che vola.

 

Traduzione grossolana e approssimativa da me di una poesia, la Ròca Blanca, di Emilien Barreyre. Nato ad Arès nel 1883, Barreyre è il poeta del mare e della vita vissuta dai marinai del Bacino di Arcachon. Pescatore e figlio di un pescatore. Nessuno ha saputo come lui cantare l’oceano guascone, le sue sponde, la sua gente. Spinto da un povertà estrema, Barreyre lascerà il il suo caro Bacino di Arcachon nel 1930 e si stabilirà nella periferia parigina e, dopo alcuni anni a fare l’operaio la giornata e a scrivere poesie la notte, ci morirà nel 1944, senza mai aver potuto tornare nella sua terra natia.

 

 

 

 

 

 

Viaggio nelle isole del mare degli Stretti, di là dalla fine delle Terre! Seconda parte.

Non cliccate lo scatto se siete sensibili!

La roba più schifosa da mangiare per un italiano nelle Charentes e in Vandea? Secondo me, è la nutria che viene considerata una leccornia assoluta in quella zona dell’Aquitania, che sia cucinata in civet, in terrina oppure in paté. Già che il transalpino storce il naso a Parigi davanti al monumento della gastronomia francese che è l’andouillette, immagino la sua reazione se dovesse mangiare un sandwich infarcito di paté di nutria! Quindi se leggete un cartello oppure un menù di specialità regionali a La Rochelle o altrove nella zona e che ci vedete scritto ragondin oppure lepre delle paludi, sappiate che è della nutria!

A Bordeaux è più raro di trovarne tranne in qualche zona del Médoc dove abito, ma, da noi, non è una roba che è venduta nei negozi (né altrove) perché la carne non proviene da bestiole di allevamento come nel Nord della regione, ma di attività venatoria. In giugno, è il periodo dei tornei di calcio. Tanti anni fa, mia zia mi aveva chiesto di accompagnare suo figlio che aveva una decina di anni a uno di quei tornei. Dunque ci andiamo e io pensavo comprare i miei sandwich alla ventrêche (pancetta spessa cotta alla griglia tipica della Guascogna) sul posto. E no. I genitori avevano previsto un picnic gargantuesco per almeno cento persone! Dunque c’è questa signora che è conosciuta per fare i migliori millas della Gironda (che sono dolci tipici della Guascogna) e c’è quasi una sommossa di genitori e di bambini intorno alla signora all’ora del pranzo. Lei distribuisce sandwich al paté e porzioni giganti di millas. Aspetto tranquillamente il mio turno. Da leccarsi i baffi! esclama un tizio che viene di inghiottire il suo terzo sandwich. Va bene, riesco ad afferrare chissà come un sandwich, una porzione di dolce e una bibita e poi vado verso il lago per pranzare perché io il calcio e le discussioni sul calcio… La giornata è interminabile meno male che c’è il lago vicino e che ho pensato al costume. Va bene. La sera, faccio il taxi e riporto due o tre orfani a casa loro. Busso alla porta della zia e lei mi invita per un bicchiere. Mi metto a parlare della giornata e del picnic preparato dai genitori e come mi sono sentito a disagio perché non avevo portato niente. E poi, anche dei sandwich al paté che erano davvero squisiti e le dico che erano stati preparati dalla sua amica, la signora che fa i migliori millas della Gironda. Mia zia si mette a guardarmi la bocca aperta e gli occhi spalancati, poi mi chiede se ero sicuro che fosse lei ad aver preparato i sandwich. E certo, rispondo, tutti i genitori la complimentava. Ma tu, insiste mia zia, difficile come sei, ne hai mangiato di quei sandwich? Beh sì, ne ho mangiato uno, era buono, un paté di maiale fatta da lei. Mia zia si mette a ridere a crepapelle e tra due singhiozzi, mi dice: no, non era del maiale. Allora, del coniglio oppure del cinghiale? No, mi fa della testa mia zia che non riesce a parlare tanto lei ride. Va bene. Dopo un mezz’ora, mia zia comincia a calmarsi e mi pugnala dicendomi che era del paté di nutria e che è la seconda specialità della tizia. E di aggiungere: eppure ero sicuro che lo sapevi! Va bene, lo saprai per la prossima volta! Non c’è stata ancora di seconda volta. E ogni volta che sono invitato da un abitante del Médoc, mi ricordo del sandwich alla nutria e di quello che dicono di noi i bordolesi, che siamo come i cinesi che mangiamo tutto quello che corre, cammina, vola, nuota, si arrampica su quel pianeta! Non mi fido più…

 

Sogno di un rapimento a Margaux!

 

Guidavo sulla strada di Margaux e ho visto quel tizio sul ciglio della strada che scattava un vigneto con dietro il suo castello da operetta. Un turista ho pensato. Mi sono fermato alla sua altezza e gli ho fatto il gesto imperativo di salire sull’auto. Non faccio niente di male, lui ha tentato di giustificarsi, trascorro un paio di giorni a Bordeaux e volevo solo scattare qualche foto dei castelli di Margaux…L’ho tranquillizzato dicendogli che non era un vero rapimento, ma che volevo solo mostrargli qualcosa. Un rapimento floreale ecco cosa le propone. Un pazzo, uno di quei selvaggi abitanti del Médoc di cui mi hanno parlato a Bordeaux, doveva pensare di me il tizio. Dopo qualche chilometro, ho parcheggiato l’auto sul cammino all’ingresso della palude. Ho aperto il bagagliaio e ho dato al tizio un paio di stivali da pioggia per non rovinare le sue scarpe di parigino. Le vipere, ho detto. Lui è diventato bianco come un lenzuolo funebre. Scherzavo, l’ho rassicurato. Abbiamo imboccato il sentiero e dopo appena una centinaia di metri l’ho sentito preso dall’emozione davanti a tutta questa bellezza. Campanellini estivi che fioriscono per milioni, ho risposto prima che lui mi faccia la domanda. Abbiamo fatto un piccolo giro nella palude senza dirci una parola, poi l’ho riportato dove l’avevo trovato, davanti ai ceppi di vite che puzzavano di pesticidi. Lui ha ringraziato. Di niente, ho detto, volevo solo mostrarle qualcosa di unico nel Médoc che si svolge a Margaux in aprile…

L’indomani, sto guidando sulla strada di Margaux quando vedo un tizio sul ciglio scattare un vigneto e mi torna in mente il mio sogno della notte. Lo stesso vigneto con dietro il suo castello da operetta. Forse è lo stesso tizio, mi dico. Oppure è solo che tutti i turisti si fermano sempre in quel posto per i loro scatti. Non mi fermo per proporgli di fare un giro nella palude. Mi trovo la scusa che non ho il tempo, ma la verità è che sono troppo civilizzato per rapire qualcuno. Continuo dunque la mia strada e lo lascio scattare il suo mucchio di legno di vite mentre, a qualche chilometro, c’è lo spettacolo incantevole della fioritura di milioni di campanellini estivi, un rapimento che lui non vedrà mai…

 

 

In cucina con Alex: Enchaud per giorni freddi!

Ho deciso di cucinarvi un altro piatto tipico del Sud-Ovest della Francia. Precisamente un enchaud che è un confit di maiale che si mangia quando fa freddo. D’accordo è per il gioco di parole! Potete mangiarlo tutto l’anno. Se, per caso, un giorno, avete l’idea di imboccare la strada tra Bordeaux e Sarlat, questo fottuto enchaud lo troverete sul menù di tutti i ristoranti che incrocerete  sul vostro cammino.

La ricetta è per una lonza di maiale di 2 chili

  • 500 g di strutto
  • 3 scalogni sbucciati e tagliati in due parti
  • Spicchi d’aglio (senza il germe) tagliati a bastoncini. Quanto basta. Da noi molto cioè circa 8 spicchi.
  • Timo (se vi piace), alloro
  • 80 g di sale grosso
  • 10 g di pepe in grani schiacciati

Preriscaldate il forno a 140 gradi. Fate sciogliere in una cocotte lo strutto.

Aggiungete l’alloro, gli scalogni, il pepe e il timo.

Inserite i bastoncini d’aglio nella carne. Arrotolatela nel sale poi disponetela su della carta da cucina per togliere il surplus di sale. Poi mettete la carne nella cocotte. Fate una piccola ebollizione…

E fatela cuocere al forno per circa tre ore.

Togliete la carne dalla cocotte, disponetela in una ciotola e filtrate lo strutto. Poi versatelo sulla carne. In frigo per almeno due giorni.

L’enchaud, potete mangiarlo freddo, riscaldato al forno, per la colazione o la merenda, in entrée tipo paté, in piatto principale con delle patate, la sera quando non sapete cosa cucinare, per il pranzo della domenica…le possibilità sono infinite. In frigo, la carne si conserva circa une mese sotto il suo spesso mantello di strutto, ma è la teoria perché, in realtà, ci sarà sempre qualcuno che andrà a rubarvene un pezzo e, quando avrete l’idea di mangiarne un boccone anche voi di quel delizioso enchaud, ritroverete solo lo strutto e niente sotto!

Non c’è nemmeno bisogno di un coltello, la forchetta basta! Buon appetito!

 

Alex nella chiesa dentro la montagna di Biancaterra! Seconda parte.

Qui siamo ai piedi della falesia, sotto il castello feudale, davanti all’ingresso della chiesa sotterranea, rupestre, “monolithe” come si dice in francese, di San Giovanni. Pensate che sotto questo portico ci sono le vestigia della chiesa primitiva che risalirebbe al VIII secolo. Certi fanno risalire la chiesa primitiva anche ai primi secoli della nostra era quando i primi cristiani perseguitati si rifugiavano nelle anfrattuosità delle rocce e nelle grotte per praticare la loro nuova religione. Dunque nel suolo ci sono tombe intagliate nella pietra e a destra l’ingresso della cripta scoperta per caso nel 1961 a causa di un crollo provocato da un camion che sbagliò manovra parcheggiando antistante alla chiesa.

La cripta. Ai tempi dei primi cristiani, la religione ha la moda nella nostra zona era il Mitraismo e forse in questa cavità sotterranea ci si praticava il battesimo romano di Mitra e che, invece di essere battezzati con acqua, gli abitanti di Aubeterre ricevevano uno spruzzo di sangue di toro appena sgozzato. L’ipotesi avventurosa che la chiesa primitiva sia stata costruita sopra un tempio mitraico è tanto più seducente che la cripta assomiglia all’altare del mitreo che si trova a Roma sotto la basilica di San Clemente al Laterano. Comunque secondo gli archeologi si tratta semplicemente di un altare cristiano. Ora lasciamo la cripta per penetrare nella chiesa “monolithe”.

Quello che colpisce e che lascia davvero a bocca aperta quando entrate nella chiesa, sono ovviamente le sue dimensioni gigantesche, ma soprattutto queste colonne esagonali che sostengono le volte a tutto sesto a quasi 30 metri sopra la vostra testa e le gallerie costellate da finestre e belvedere che sono mangiate dall’umidità e dal salnitro. Dunque questa chiesa è posteriore e risale al XI e XII ed è stata scavata nella roccia contemporaneamente alla costruzione del castello feudale. Siamo nel 1096 e il visconte di Aubeterre, Pierre di Castillon detto anche Pierre I – lo stesso che ha fatto scavare la chiesa “monolithe” di Saint-Emilion – parte in compagnia di Goffredo di Buglione per la prima crociata. Lui a Gerusalemme ha difeso il Santo Sepolcro e ha scoperto, in Terra Santa, le chiese scavate nella roccia. E dunque quando Pierre di Castillon torna dalla crociata con tutto un carico di reliquie cristiane, naturalmente gli viene l’idea di ingrandire la chiesa primitiva, scavando la collina sotto il castello in costruzione, per farne una cattedrale, uno scrigno che ospiterà le sue preziose reliquie. Tutti quei lavori faraonici sono affidati a monaci benedettini che si mettono a intagliare a mano la collina. E queste talpe sono motivate perché lavorano per il loro Dio e si dice che tra le reliquie straordinarie portate da Pierre di Castillon da Gerusalemme ci sarebbe anche la croce sulla quale fu crocifisso Gesù. Pensate un po’ che i lavori sono compiuti in appena una decina di anni. Tutto questo tesoro di architettura ha uno scopo: mettere in valore il reliquiario monolito di 6 metri, e che è stato costruito secondo il ricordo che aveva Pierre di Castillon del Santo Sepolcro. Cosa conteneva questo reliquiario? Sicuramente qualcosa che aveva un legame con il Cristo anche se il ricordo di queste reliquie non sono state conservate. Da un lato, il reliquiario e dall’altro, quasi all’ingresso della chiesa, una cavità reliquiario con nel fondo la forma di una croce intagliata che doveva accogliere la croce del supplizio del Cristo. Chiesa come scrigno a reliquie, ma anche necropoli che ospita centinaia di tombe intagliate nella pietra e di sarcofagi scolpiti nelle mura calcaree. Era un privilegio molto ricercato di essere seppellito dentro la chiesa. E tutte le tombe guardano verso il reliquiario. I posti più cari erano quelli più vicino al reliquiario. Forse la gente pensava che essere seppellita a prossimità delle reliquie assicurava un accesso al paradiso più facile. Diciamolo, i signori di Aubeterre facevano soldi con il suolo della loro chiesa. Non sappiamo niente delle reliquie e forse si sono volatilizzate ai tempi delle guerre di religione. Invece sappiamo che alla fine del XVI secolo, il reliquiario serviva di sepoltura ai signori di Aubeterre. Questo è un fatto certo e documentato. Quando entrate nella chiesa, non è facile tanto sembra una grotta, ma dovete immaginare una vera chiesa con le vetrate colorate alle finestre sopra l’ingresso e che inondavano la chiesa di luce, le mura adornate, gli arazzi, gli stemmi dei signori seppelliti nella chiesa che splendevano sopra le loro tombe. Dovete immaginare la stupefazione dei pellegrini di Compostela che si ritrovavano in un luogo che sembrava per loro il Santo Sepolcro. D’altronde questo nome di San Giovanni che si dà alla chiesa è abbastanza recente e, prima la Rivoluzione francese, la chiesa aveva il nome di San Salvatore. Dovete immaginare il percorso che loro dovevano fare dentro la chiesa tra le reliquie e che doveva ricordare la passione del Cristo. Questa reliquia è la croce, quella è un roccia proveniente del Calvario, questo è il lenzuolo funebre del Cristo…Sono cose del genere che dovete immaginare. Va bene, ora che vi ho raccontato la storia molto ma molto parziale di San Giovanni, devo uscire perché ho bisogno di luce naturale, che non sono una talpa io!

 

Alex nella chiesa dentro la montagna di Biancaterra! Prima parte.

Fine di settembre. Perché non c’è solo Saint-Emilion nella vita, vi porto a Aubeterre-sur-Dronne che è la sua gemella del Nord, nel dipartimento della Charente, e che si trova appena a una sessantina di chilometri da Saint-Emilion. Aubeterre è un’antica piazza forte arrocata sul fianco di una falesia calcarea – di cui questo nome di Aubeterre (Biancaterra) – che domina una curva del fiume Dronne che è un sotto affluente della Dordogna. Dunque siamo nel dipartimento della Charente, ma il fiume Dronne segna il confine con il Périgord. Il Paese di Aubeterre ha la forma di un anfiteatro, di una falce di cui le estremità puntano verso il Périgord. Dunque quando siete a Aubeterre e che guardate il panorama, di là del fiume ai vostri piedi, vedete le ridenti e lussureggianti campagne del Périgord. Non è tanto importante oggi, ma una volta, il fiume Dronne segnava il confine tra la gente che parlava la lingua d’Oc sulla riva Sud e la gente che parlava la lingua d’Oïl sulla riva Nord. Parcheggio la macchina sull’antico campo di fiera. Un casino pazzesco per trovare un posto perché c’è un mercato di vasai che vengono da tutta la regione e anche dal paese di Brach nel mio caro Médoc. Volete sapere come si riconosce un villaggio francese che ha il marchio “più bei villaggi di Francia”? C’è la bottega di un vasaio ogni due metri! Dunque eccomi, trascinato dal flusso dei turisti, a scendere la via del campo di Fiera verso il cuore della città. Quasi l’ora del pranzo e comincio ad avere “le croquant” (fame). Tutti i ristoranti della piazza principale sembrano già traboccare di gente affamata. Già non dovrei morire di fame visto il numero di ristoranti che deve superare alla grande il numero di abitanti circa 400! (va bene, sto esagerando alla grande!). Dunque decido di aspettare per il pranzo e giro a destra per salire la via deserta che porta alla chiesa San Giacomo. Una cosa davvero sorprendente ad Aubeterre è il numero di edifici religiosi. Durante tutto il Medioevo, la città fu occupata da monaci, canonici, abati, religiosi che hanno contribuito alla sua ricchezza. I religiosi guadagnavano soldi altrove e venivano spenderli ad Aubeterre. Bisogna a dire comunque che la cittadina era un punto di passaggio sul cammino di Compostela. E, dal punto di vista militare, un incrocio strategico tra Ovest, Centro e Sud. Non per niente la cittadina fu saccheggiata dai francesi, dagli inglesi, dai cattolici e dai protestanti durante la sua storia movimentata. Dunque a prossimità della chiesa di San Giacomo c’è il convento delle Clarisse (costruito nel 1608) forse il più ricco di Francia prima la Rivoluzione francese e anche quello degli Cordiglieri non lontano. Oggi sono palazzi privati e non si visitano. A San Giacomo sono a una delle estremità dell’anfiteatro quindi posso ammirare l’altra estremità che è costituita dalle vestigia dell’antico castello feudale che fu distrutto durante la Rivoluzione e trasformato in giardino. Di questo castello ne resta una bellissima casa nobile che la gente continua a chiamare castello. Questa chiesa San Giacomo è stata distrutta nel 1563 dai protestanti, ma ne rimane un capolavoro: Il portale romanico nello stile della Saintonge. Il resto della chiesa è più moderno. Davanti a questo portale, potete restarci delle ore perché i capitelli sono fioriti e animati di figure allegoriche che raffigurano i segni dello zodiaco e i lavori di ogni stagione nei diversi mestieri medievali. Francamente, io ci sarei rimasto la giornata, ma c’era un barbone seduto sul sagrato che pensava di essere un parchimetro e alla fine non avevo più di spicciola. Un’altra cosa divertente a prossimità di San Giacomo è una specie di torre ottagonale dove si sarebbe pagnotato (dal verbo pronominale francese se pagnoter cioè dormire) Enrico di Navarra prima della battaglia di Coutras. Ma sapete che questa cosa è veramente tipico della nostra Regione e non troverete un paese di Guascogna dove non ha dormito questo fottuto Borbone di Enrico IV! Dopo San Giacomo, decido di visitare il convento dei Minimi e la sua famosa cappella. Una visione del mio futuro questo convento visto che il coso è trasformato in EHPAD che è l’acronimo francese per designare una residenza medicalizzata per anziani. Fortunatamente loro sono alla mensa e posso fare qualche giro tranquillo nel chiostro e senza deambulatore. Mi danno fame quei vecchi con questo odore di brodo che profuma tutto il chiostro. Fuori dal convento, sento ancora il tizio che canta vecchie canzoni di Piaf girando la manovella di un organetto da barberia sulla piazza principale. Ma cosa fanno tutti questi turisti a essere ancora nei ristoranti! Non possono andare via che sono già quasi le due. Ho uno di quel “croquant” ora! Ovviamente succede quello che doveva succedere e, quando ridiscendo verso la piazza principale, non trovo una tavola nei 400 ristoranti del paese per pranzare. Caspita anche la panetteria è stata svaligiata e non c’è più un quignon (tozzo) di pane! Mi metto a vagare nelle vie medievali della città completamente affamato, ad ammirare la fioritura delle lagestroemia che sono alberi tipici del Sud-Ovest e la bellezza dei balconi tarlati delle case gotiche. Forse non mi farà male di digiunare per una volta? Poi l’ora di apertura per visitare la chiesa “monolithe” di San Giovanni – non ho scritto all’inizio che Aubeterre era la città gemella di quella di Saint-Emilion? – si avvicina. Davanti all’ingresso della chiesa “monolithe”, un angelo, una ragazzina di otto anni, mi tira per il gomito e mi chiede se non sarei interessato da una fetta di torta al cioccolato e da un bicchiere di sidro del paese; gli allievi della scuola hanno approfittato del mercato dei vasai per cucinare delle torte e tentare di farsi un po’ di soldi. Non mi faccio pregare e mi siedo a una tavola e chiedo alla mia salvatrice la metà di una torta al cioccolato e una bottiglia di sidro. Tre euro. Le lascio una mancia di due euro, una moneta che aveva scappato chissà come al barbone di San Giacomo. Saziato, sono pronto a penetrare nella chiesa dentro la montagna….