Bacino di Arcachon e poesia: Il canto della Leyre. Terza parte.

Terza parte del bellissimo Canto della Leyre del poeta di Arès, Emilien Barreyre. Abbiamo assistito alla nascità della Leyre, poi abbiamo scoperto come la Leyre è diventata un fiume. Ora vediamo se la Leyre riuscirà a raggiungere l’Oceano. Questa poesia è un canto quindi ci saranno altri appuntamenti man mano che  tradurrò l’antica lingua dei nostri nonni in italiano. 

 

Lavetz aurés credut, ò Lèira, que n’avès,

Tot dreit davant o en reviradas,

Qu’a riular quauquas cent braçadas

Per veire la mar granda esparrada a tòs pès.

 

Allora avresti creduto, o Leyre che avevi,

dritto davanti o facendo virate,

Solo a scorrere qualche cento braccia

Per vedere l’Oceano steso ai tuoi piedi

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De v’rai, n’èras pas alunhada ;

Mès, per en chic de temps a-d era te mesclar,

Au lòc d’estar la Lèira, auré falut estar

La Garona en granda pujada.

 

Veramente, non eri tanto allontanata;

Però, per un po’ di tempo a esso mescolarti,

Invece di essere la Leyre, sarebbe dovuta essere

La Garonna in grande straripamento

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Es qu’enlà, davant tu, dau Siroet au Noroet,

Haut de cent pè, long d’una lèga,

E dentejat com una sèga,

Se mastèva, blancós de sable, un gran paret.

 

È che di là, davanti a te, dal vento del Sud a quello del Nord,

Alto di cento piedi, lungo di una lega,

E dentata come una sega,

Si rizzava, biancastro di sabbia, una grande parete.

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D’eth a tu, junquèira , e junquèira,

D’on sortiva una audor poderosa de sau ;

Dempuèi pausa, lo Ròine, auré sobut d’un saut,

Juncs e gran paret de sableira.

 

Da essa a te, giuncaia, e giuncaia,

Da dove proveniva un odore potente di sale;

Da tempo, il Rodano, avrebbe varcato, di un salto,

Giunchi e grande parete sabbiosa.

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Tu, los juncs, èras tan longuèira a los negar,

Que, quan a las ròcas toquères,

Las ! dijà, la mei hauta d’eras,

Barrèva lo sol lòc on podèvas passar.

 

Tu, i giunchi, eri tanto lunga ad annegarli,

Che, quando toccasti le dune,

Ahimè,  già la più alta di esse

Sbarrava il solo posto dove potevi passare.

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Es qu’a la baisha de la ròca,

Badèva un cròt pujant, e au lòc de devarar,

Per de jònher a la mar, te falèva escalar

Aquera hauta bossiròca.

 

È che la base della duna,

Contemplava un abisso elevato, e invece di scendere,

Per raggiungere l’Oceano, ti occorreva arrampicare

Questa alta gobba.

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Tot en pluja, un ivèrn, mei que hòrt t’ajudèt

A pujar haut dens la trencada,

Mès la ròca, l’avès rogada,

E lo sable esgraulat, ton camin te bocèt.

 

Un inverno più che piovoso ti aiutò

A issarti alto nella trinciata,

Ma la duna, l’avevi rosicchiata,

E la sabbia rovinata, il tuo cammino ostrusse.

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Entretemps, la pluja abondosa,

T’aver hèit de pertot  escòrrer de ton leit ;

E heres alavetz, de la ròca en arrèir,

Una lacosa espectaclosa.

 

Frattempo, la pioggia abbondante,

Ti aveva fatto dappertutto scorrere fuori dal tuo letto;

E tu facesti allora della duna indietro,

Una laguna spettacolare.

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Bacino di Arcachon e Poesia: Il canto della Leyre. Seconda parte.

Se avete mancato la prima parte, cliccate qui. Quest’estate vi propongo un viaggio lungo il fiume Leyre attraverso una bellissima poesia di Emilien Barreyre intitolata appunto: Il canto della Leyre. Ecco la seconda parte.

 

 

Ah ! Segur, Lèira, de ta cossa,

Si vedèva  au sorelh laginar lo tralhat,

Mès en tan chic de hons qu’auré tot just levat,

Dens ton aiga un chaupic de mossa.

 

Ah! Certo, Leyre, dal tuo corso,

Si vedeva al sole scintillare il percorso,

Però tanto poco profondo che avrebbe sollevato appena,

nella tua acqua un’ombra di schiuma. 

 

 

Atau, casi secada, arriulères cent ans;

Mès la natura mairanèira,

Te balhèt la Pichona Lèira*,

E augures d’òra-avant perhontor e balanç,

 

Così, quasi  in secca, stillasti cento anni;

Però la natura materna,

Ti regalò la Piccola Leyre*,

E avesti d’ora in poi profondità e corrente,

 

 

Dinc’aqui per la haironèra,

N’èras qu’un carrinclòt qu’a plenh un vergon,

Adara, l’ahamat, l’assoladit hairon,

Se pausèva qu’a ta ribèra.

 

Fin là per gli aironi,

Eri appena un solco che riempie la pioggia,

Ora, l’affamato, il solitario airone, 

Si posava sul tuo fiume.

 

 

De temps en temps, ton aiga, a ton ras sableirós,

Un tròc de clanca darriguèva,

Que segur, aqui, s’escondèva

Dempuèi l’atge on lo sable engorguèt l’aliòs*.

 

Ogni tanto, la tua acqua, alla tua sabbia,

Un pezzo di conchiglia strappava,

che certamente, là, si nascondeva

Dai tempi dove la sabbia imprigionava l’alios*

 

 

Ah ! S’avès augut tau l’aujame

Lo sens miravilhós qu’a recebut das cèus,

Lavetz aurès credut a veire aqueths clanquèus,

Tota a tocar la mar que brama.

 

Ah! Se avessi avuto tale l’uccello

Il senso meraviglioso ricevuto dai cieli,

Allora avresti creduto di vedere queste conchiglie,

Tutte a toccare l’Oceano che mugghia.

(fine seconda parte)

 

*La Piccola Leyre, l’affluente principale della Leyre.

*Alios, Sotto la superficie sabbiosa, grès rosso impermeabile caratteristico del sottosuolo delle lande di Bordeaux.

 

 

Bacino di Arcachon e Poesia: Il canto della Leyre.

Ne vale la pena di fare una passeggiata lungo la Leyre, di subire gli assalti delle tigri, delle zecche e dei serpenti? Credetemi che tutto questo fastidio si dimentica presto davanti allo spettacolo delle centinaia di damigelle blu che danzano sopra le acque del fiume e che sembrano diamanti quando il sole le attraversa. Oggi vi propongo una traduzione grossolana e approssimativa fatta da me – dove purtroppo si perdono le rime, ma accetto tutti i suggerimenti per migliorare il mio testo!  – della prima parte di una poesia, Il canto della Leyre (pronunciate Leir), di Emilien Barreyre. Nato ad Arès nel 1883, Barreyre è il poeta del mare e della vita vissuta dai marinai del Bacino di Arcachon. Pescatore e figlio di un pescatore. Nessuno ha saputo come lui cantare l’oceano guascone, le sue sponde, la sua gente. Spinto da un povertà estrema, Barreyre lascerà il il suo caro Bacino di Arcachon nel 1930 e si stabilirà nella periferia parigina e, dopo alcuni anni a fare l’operaio la giornata e a scrivere poesie la notte, ci morirà nel 1944, senza mai aver potuto tornare nella sua terra natia. Notate che gli scatti, fatti durante la mia passeggiata, sono quelli di un piccolo affluente della Leyre.

Òh ! que lo siagle es lunh que te vit sorgilhar,

Ò cara e encatadora Lèira !

Dijà, lavetz, òh ! quau sablèira,

A vint lègas arrèir de nòsta granda mar !

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Oh! che il secolo che ti vide scaturire è lontano,

O cara e incantevole Leyre!

Già, allora, o! quanta sabbia,

A venti leghe a ridosso del nostro Oceano! 

Per aver au sorelh ta plaça,

Ailas ! avès causit, tu, lo tan pichon riu,

Aqueth tan gran terraire on ren qu’un ombra viu :

La de la nublada que passa.

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Per aver il tuo posto al sole,

Ahimè! avevi scelto, tu, il così piccolo fiume,

Quel tanto gran Paese dove la sola ombra vivente:

È quella della nuvola che passa.  

Òh ! lo sòrt tristejant de néisher en lòcs atau,

On autanlèu qu’èra  cairada,

La mei gran pluja èra eschompada,

Per lo sable assetat d’aqueth campàs mortau.

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Oh! la triste sorte di nascere in tali luoghi,

Dove appena era caduta,

la più grande pioggia era assorbita,

Per la sabbia assetata di questa landa mortale.

Ò riu nanòt, qu’èras a plànher,

Tu qu’èras qu’un ploric en país vasconian,

Lavetz que la Garona au front dau Vau d’Aran

Riulèva emb brut, e pas de canha.

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O fiume nano, eri a compiangere,

Tu che eri una lacrima in paese guascone,

Mentre la Garonna al fronte della val d’Aran

Correva rumorosa, e senza sudare.

Avès pertant com era un gran rèule a jogar :

Mès tau rèule coma lo tèner,

Tu, tant estreita, que shens pena,

Un chancat lanusquet  t’auré poscut gamat.

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Avevi pure come essa un grande ruolo da giocare:

Però quel ruolo come lo giocare,

Tu, così stretta, che senza sforzo, 

Un landese su suoi trampoli ti avrebbe potuto scavalcare.

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Fine prima parte

 

Médoc: La fata dai capelli color ruggine!

La fontana che vedete sopra è quella di Bernos sul confine tra il Médoc dell’estuario e quello delle Lande di Guascogna. Forse è la più misteriosa fra tutte le fontane miracolose e guaritrici che pullulano in Aquitania. Misteriosa perché non si sa proprio niente della costruzione del muro che la circonda e della porta che permette di accedere. Si dice che i poteri magici della fontana risalgono ai tempi dei meduli cioè l’antico popolo celtico che abitava la penisola del Médoc ai tempi dei galli. Ma la fontana è stata un luogo di culto per altri popoli più antichi e oggi dimenticati, d’altronde oggetti preistorici di offerta e utensili in selce sono stati ritrovati a prossimità della fontana, nel letto del fiume. Misteriosa anche perché la fontana non è stata cristianizzata come la maggioranza delle nostre fontane guaritrici. Eppure siamo sul cammino di Compostela e i pellegrini hanno anche loro fatto delle offerte alla fontana per secoli, hanno bevuto la sua acqua benefica oppure hanno utilizzato l’acqua per curare i loro mali oppure rilassarsi dopo aver attraversato l’immensa palude ostile che era il Nord Médoc e prima di continuare attraverso la palude verso Bordeaux. Si dice che in questa fontana ci vive una fata dai capelli color ruggine. Questa fata sarebbe una principessa meduli che ci si sarebbe annegata, una sera, e i suoi capelli avrebbero colorato in ruggine l’acqua cristallina della fontana, del fiume e di tutti i fiumi del Médoc. Quindi non vi chiedete più perché l’acqua dei fiumi del Médoc è colore ruggine, avete la risposta. In inverno no, ma in estate è possibile che ci si incontrate la fata. Quindi è meglio andarci in giornata quando la fata dorme nel suo palazzo sotto la fontana e mai in crepuscolo. Le fate sono creature della notte. Se, per caso, ci passate una sera e che vedete una ragazza dai capelli rossi e vestita di bianco. E se lei, appoggiata al muro, si sta pettinando la sua chioma rossa guardando l’acqua. Dovete assolutamente continuare il vostro cammino discretamente senza fermarvi né parlarle. Altrimenti rischierete di fare una brutta fine perché non ci vuole mai disturbare una fata meduli che si sta sbrogliando i capelli. Avevo raccontato in un altro post come la gente di Guascogna usava le fontane miracolose per guarire di certi mali e quindi alla fontana di Bernos era esattamente la stessa cosa tranne che la gente preferiva usare gli spilli. La persona che chiede una guarigione si tocca la zona dolorosa con uno spillo, poi lo spillo è buttato nell’acqua della fontana sperando nell’intercessione della divinità. Non è una semplice offerta alla fata, ma un modo per sbarazzarsi del male che è trasmesso allo spillo. Mettiamo che un imbecille che passa davanti alla fontana ci tuffa la mano per raccogliere lo spillo, lui si prende il male e quello che ha buttato lo spillo è definitivamente guarito. La fontana di Bernos non è soltanto una fontana guaritrice o miracolosa, è una fontana che è anche chiamata “marieuse” in francese che sarebbe qualcosa come paraninfa in italiano. La fata avrebbe dotato l’acqua della fontana del potere di prevedere i matrimoni in ricordo dei giuramenti d’amore scambiati, sul bordo, con il suo galante quando lei era una principessa meduli. Dunque le ragazze del Médoc – quasi mai i ragazzi – che erano preoccupate da queste storie di matrimonio si recavano alla fontana per consultare la fata. In questo caso ancora si usavano gli spilli. La ragazza tornava la schiena alla fontana e gettava sopra la sua spalla sinistra due spilli nell’acqua. Poi lei andava a vedere il risultato. In caso in cui gli spilli erano incrociati nel fondo della fontana, significava che lei era sposata prima la fine dell’anno, altrimenti lei doveva aspettare l’anno seguente per consultare di nuovo la fata….Non mi ricordo le circostanze, ma ho raccontato il gioco degli spilli alle due figlie di mio fratello. E ora le due pesti mi pressano per andare alla fontana e gettare dentro degli spilli. Incrocio le dita e spero che la fata non mi faccia uno scherzo. L’una ha otto anni e l’altra quattordici anni! Comunque le due mocciose mi hanno rassicurato, non è per sposarsi che vogliono consultare la fata, ma per sapere se il padre vincerà al lotto!

 

 

 

 

 

La casa dei lupi.

 

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Una volta, in una casa, il gatto sentì la padrona che diceva al marito:

– Questo gatto si fa vecchio. Non può più cacciare i ratti come una volta. Ci vorrà annegarlo nel ruscello.

 Bene come vorrai rispose l’uomo.

Il gatto che si scaldava al piede del focolare, sentiva tutto, ma non diceva niente. Un momento dopo la donna disse ancora:

– Carnevale si avvicina. Metterò il gallo in pentola. Così, avremo del buon brodo e del buon bollito il giorno di Martedì Grasso.

Il gatto faceva finta di dormire, ma non perdeva una parola di tutto quello che si diceva. Poi se ne andò fuori a trovare il gallo:

– Gallo, si stanno combinando delle cattive cose per noi due. Tu, vogliono metterti in pentola il giorno di Carnevale, e io, vorrebbero annegarmi perché sto diventando troppo vecchio. Penso che non sia una brutta idea di squagliarsela al più presto.

– Hai ragione, gatto.

Poi il gatto e il gallo se ne andarono. E camminarono, e camminarono. In strada, incontrarono una cicogna.

– Buongiorno brava gente.

– Buongiorno Cicogna, E dove vai così?

– Oh! Ho un’ala rotta. E ormai non posso più volare. Quindi sono costretta a camminare.

– E bene, noi, siamo partiti per fare un viaggio. Se vuoi seguirci. Ti portiamo con noi.

E il gatto, il gallo e la cicogna se ne andarono.

E camminarono, e camminarono. Attraversando un prato, incontrarono un montone che pascolava là.

– Buongiorno brava gente.

– Buongiorno Montone. Non sembra troppo felice!

– Oh! Pensate! Carnevale si avvicina e il pastore vuole vendermi al macellaio del paese.

– E bene, noi siamo partiti per fare un viaggio. Se vuoi seguirci. Ti portiamo con noi.

E il gatto, il gallo, la cicogna ripresero la loro strada con il montone.

E camminarono, e camminarono. Alla fine, arrivarono davanti a una casa, lontano, lontano, in mezzo alla Landa. C’era sul davanti della casa un prato tutto tappezzato di una bella erba verde. Il gallo, la cicogna e il montone si misero a pascolare.

– Oh, a me, disse il gatto, non piace. Nessuno mi ha imparato a pascolare. E entrò nella casa: non c’era nessuno dentro: Andò al salatoio e ne uscì con un bel pezzo di lardo.

Come la notte cadeva, queste quattro bestie, una volta bene sazie, si rifugiarono nella casa per passarci la notte al riparo. Ma presto, sentirono gli urli di una muta di lupi che arrivavano verso la casa al gran galoppo.

– Oh! Disse il gatto, siamo nella casa dei lupi. Ci vuole sbarazzarsi di queste cattive bestiole…Spegniamo la candela, e non diciamo più niente. Tu, gallo, appollaiati su questa mensola davanti alla porta. Tu, cicogna, accoccolati all’angolo del lavandino. Tu, montone, cacciati sotto la tavola. Quanto a me, mi nascondo nelle ceneri del focolare.

I lupi avevano visto da lontano la luce nella casa: non osavano entrare senza sapere chi era dentro.

 Ci entro il primo, disse l’uno di loro, per vedere se non c’è pericolo poi vi chiamerò.

Questo lupo aprì la porta, e ascoltò: non sentì niente. Si inoltrò allora dentro, piano piano. L’oscurità era totale, ed egli brancolava nel buio. Volle avvicinarsi alla tavola per prendere la candela: ma il montone passò dietro di lui, e gli diede tre grandi testate nel sedere, così forte che lo fece cadere sul naso. Il lupo si rialzò e andò verso il focolare per accendere la candela ai tizzoni: il gatto gli saltò alle narici e con le grinfie gli strappò tutto il pelo con un pezzo della pelle del muso.  Il lupo si voltò verso il lavandino: la cicogna lo aspettava e gli cavò un occhio con un colpo di becco.

Il povero lupo, spaventato, massacrato di botte, graffiato e accecato, si salvò fuori senza chiedere il suo conto. Come egli varcava la soglia della porta, il gallo si mise a cantare.

– Chicchirichì!  chicchirichì!  chicchirichì

Il lupo corse verso il posto dove aveva lasciato gli altri.

– Amici, non tornate in questa casa! Non ci si respira un buona aria per noi. Mentre stavo cercando la candela sulla tavola, un fabbro mi ha dato tre grandi colpi di mazza nel sedere: mi ha fatto schiacciare il naso a terra. Ho voluto avvicinarmi del focolare: là, un cardatore mi ha pettinato il muso con il pettine del lino. Accanto al lavandino, c’era un calzolaio che mi ha strappato l’occhio con il suo punteruolo. Andateci a vedere se volete essere trattati come lo sono stato; per quanto mi guarda, non ho nessuna voglia di tornarci.

Sentendo questo, i lupi presi dalla paura, scapparono fino al fondo della Landa, come se avessero avuto il diavolo a ridosso.

Non tornarono mai più nella loro casa; e il gatto, il gallo, la cicogna e il montone ci rimasero, felici e in pace, buoni amici, e ci morirono di vecchiaia.

Fiaba tradizionale delle Lande di Guascogna.  

Le fate della duna di Boumbét.

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C’era una volta un pastore di Taoulade che rinchiudeva le sue pecore in un ovile, a Boumbét dove si trova la Grande Landa. L’ovile di Boumbét non esiste più oggi: era situato a nord dai poggi, presso una specie di prato. Questo pastore era un ragazzo un po’ fiero, e che sapeva anche un po’ leggere.

– Non vuoi frequentare coloro che ti valgono, ne parlare con loro, gli dicevano gli altri pastori, eppure sarai sempre pieno di zecche!

Ma lui lasciava dire e ne faceva solo di testa sua.

Sapete ciò che si raccontava una volta, che si sentiva del rumore sotto la duna di Boumbét. E il pastore, sorvegliando il gregge, ne aveva fatto più di una volta l’esperienza; talvolta si sentiva un gri-gri-gri come se qualcuno avesse mosso stoviglie; talvolta si sentiva come delle grandi risate, oppure come il rumore che fa la gente che cammina sull’alios: Plim-plam, plim-plam…E lui pensava spesso, con un po’ di timore però: mi piacerebbe vedere il nido dei calabroni che possono ronzare in quel modo… Eravamo in mezzo all’estate; si lasciava le pecore fuori durante la notte.

Una sera, il pastore giunse l’ovile, e una volta il gregge fuori, andò a sedersi in cima alla duna. Là, egli tirò un libro dallo zaino e si mise a leggere. E leggeva, leggeva senza smettere…A tratti, dava un occhio alle stelle.

Dopo un lungo tempo, verso mezzanotte, la duna si aprì nel mezzo proprio davanti a lui. E il pastore sentì una voce di donna che diceva: Piccola, vai a vedere cosa succede sulla duna. Una ragazzina salì.

– Madre, lei dice, vedo un pastore seduto su un ciuffo di brughiera.

– Digli di scendere qui, riprese la voce. E che lui non abbia paura che il suo gregge se ne trovi male.

La ragazzina risalì.

Pastore, lei dice, lei deve venire con noi senza essere preoccupato per le sue pecore.

“Dopotutto, lui pensò, si muore solo una volta e comunque voglio vedere questo!” E lui scese. Appena fu entrato che la duna si racchiuse dietro di lui. Trr! Tutto questo l’intrigava molto ed egli guardava spesso in alto.

– Mi segue, dice la ragazzina, nessuno le farà del male. Il pastore giunse nella stanza di un alloggio tanto bello che non aveva mai visto qualcosa del genere: qui c’erano specchi, là stoviglie e vasi; bei mobili da un lato, mobili ancora più splendenti dall’altro: l’uomo ne era abbagliato. Tutto era pulito, tutto splendeva come l’acqua chiara al sole.

In uno specchio, il pastore vide una landa profonda, dove dei pastori erravano sui loro trampoli, dietro i greggi; lui vedeva tutto quello come se fosse su terra.

Poi, scorse un gruppo di donne che ridevano di fronte a lui, così belle e graziose che era un piacere di vederle. Ce ne era una, giovane, che portava nei capelli una corona intrecciata di brughiera e di ginestroni fioriti.

Pastore, lei dice, siediti. Hai qui tutto quello che ci vuole per ristorarti e riposarti. Non ti preoccupare per le tue pecore: non hanno bisogno di te per sorvegliarle.

E le fate gli servirono uno stupendo spuntino, con una profusione di pietanze squisite a cui il pastore non aveva mai assaggiato.

E lui di pensare: “se mai sono stato sazio nella mia vita, è stato questa volta qua…”

Quando il pastore ebbe mangiato a volontà, le fate lo portarono a un letto tanto bello che lui non osava sdraiarsi .

“Non è più il giaciglio dell’ovile, lui pensò, e non ci prenderò delle zecche!”

E si addormentò. Quando si svegliò, si rimise a leggere, e a leggere ancora nel suo libro, a leggere tanto che riuscì a fare aprire la duna e se ne andò.

Il gregge era al posto dove l’aveva lasciato, al completo e bene nutrito.

 

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E, perbacco! da questo giorno dove lui conobbe il cammino, prese l’abitudine di passarci. C’era là dentro una fata giovane e carina, carina come uno specchio. E loro si innamorarono tanto che gli altri pastori non rividero non molto il pastore alla superficie della landa. Ma dove ti stai nascondendo? loro chiedevano. Ti perdiamo per giorni interi! Ma loro potevano parlare e chiedere, lui taceva. Il pastore sorvegliava ancora di tanto in tanto il gregge, bene vestito e le tasche piene di soldi. E il gregge prosperava più degli altri greggi: mai le sue pecore si mescolavano con le altre, che lui fu presente o no; se incontravano altri greggi, deviavano o li attraversavano senza mescolarsi. Tutto questo faceva parlare; ci furono due pastori più furbi degli altri, che vollero sapere cos’era questo mistero, e si misero a spiare il pastore. Una sera, lo videro andare verso la duna di Boumbét; E il pastore poteva fare di tutto, abbassarsi, nascondersi nei cespugli, gli altri lo inseguivano da lontano, da un ovile all’altro; giunsero in tempo per vedere il pastore si infilare nella duna. Ne era abbastanza e l’indomani, già prima lo spuntare del giorno, tutti gli abitanti della Grande Landa spingevano dei gridi che si sentivano fino a Bordeaux.

Ma quando il pastore volle tornare alla casa delle fate, la duna non si mosse più di un vecchio tronco di pino; restò come era prima e tale che è sempre rimasta, un poggio sabbioso, sparso di brughiera e di serpillo con il cammino tutto bianco. e lui, povero pastore, per quanto potesse leggere, mormorare imprecazioni, e versare tutte le lacrime che volle. Non ci torna mai più dentro. Povero era stato, povero era ridiventato. Eppure, il pastore non volle mai lasciare il miserabile ovile sulla duna di Boumbét. Così senza mai sposarsi; non frequentava nessuno, non aveva altro focolare e letto di quelli dell’ovile di Boumbét. Lontano dagli uomini. Lo si vedeva di notte, al chiaro di luna, si diceva, a vagare sulla duna e urtare il suolo con i suoi trampoli, come uno che vuole farsi aprire una porta.

Le fate della duna di Boumbét. Fiaba delle Lande di Guascogna raccolta da Félix Arnaudin.

 

Oceano: Alla ricerca d’oro nella foresta dello scultore di alberi!

Ve l’ho già detto che la gente della penisola del Médoc è un popolo di raccoglitori e di mangiatori di funghi? E’ tanto vero che la gente prende le vacanze addirittura per andare a funghi e che viene matta in autunno, non solo per i funghi porcini ed i gallinacci, ma anche per un fungo squisito e altamente velenoso, chiamato bidaou in guascone (tricholoma equestre in italiano),  che cresce unicamente nella sabbia delle dune oceaniche. Va bene, oggi, non parleremo di quei bidaou di cui il consumo è vietato in Italia, ma di un altro fungo che cresce nelle immense pinete di pini marittimi che costeggiano l’Oceano Atlantico: i finferli. Dopo la stagione dei gallinacci e dei funghi porcini, i mesi che vanno da novembre fino a gennaio sono dedicati alla ricerca dei finferli. Ed io, oggi, ho assolutamente bisogno di trovare quei funghi perché è il contorno tradizionale che accompagna l’oca per il nostro pranzo di natale. Notate che i finferli non sono difficili da trovare perché si trovano per tonnellate, soprattutto nelle foreste in riva all’oceano e particolarmente in quelle di Lacanau. Quindi oggi vi porto al mare per cercare dei funghi, sorprendente no? Il mio “giacimento” si trova a Nord, non lontano dalla mia spiaggia segreta dell’Alexandre di cui ho già parlato più volte su questo blog, in una strana foresta ai piedi dell’ultima duna a ridosso dell’oceano.

 

Ve l’ho già detto che adoro camminare? quindi da dove ho lasciato la macchina a Lacanau, dovete camminare due ore attraverso la solitudine della foresta verso Nord prima di raggiungere il posto. Quando il clangore dell’oceano si fa più forte e diventa assordente; quando le vostre gambe non vi reggono più; quando i vostro polmoni sono pronti ad esplodere; quando avete un gusto di sangue in bocca, allora siete arrivati e vi resta a salire le ultime dune per raggiungere il mio giacimento di finferli.

Dentro una strana foresta, quasi spettrale, soprattutto quando c’è la nebbia e che soffia il vento, che vi ricorda che questo paese una volta veniva chiamato il paese mezzo morte. Non è la foresta di pini marittimi ben allineata e coltivata come la vigne, no, qui siamo davvero in un altro universo, un campo di battaglia dove si svolge una guerra eterna tra i pini e l’oceano per la conquista della duna. Sembra una foresta creata da un dio, una specie di maestro bonsai pazzo. Conoscete l’arte dei bonsai? E’ l’arte della costrizione perché essa consiste a costringere un albero a non crescere ed a mantenerlo in vita in uno stato fuori dal tempo naturale; è una costrizione tutta particolare perché lo scopo del maestro bonsai è mantenere un albero piccolo e bello senza uccidere l’albero. Il bonsai è un albero in equilibrio tra la natura e la morte; è una lotta tra un albero che vorrebbe crescere ed un uomo che lo costringe a rimanere piccolo. Ma qui, in questa strana foresta, non c’è di maestro bonsai perché la bellezza di quegli alberi alle forme bizzarre ed eccentriche è puramente fortuita e lo scopo della natura non è certamente di  creare opere d’arte, ma la morte. Qui niente maestro bonsai che costringe gli alberi con forbici, cesoie e filo di ferro perché la natura possiede già i suoi arnesi che sono il vento ed il sale. Solo con il vento e un po’ di sale, la natura riesce a creare tutta questa strana bellezza. Dico la natura, ma il pino marittimo ha il suo ruolo perché è lui che trova delle strategie per sopravvivere a questa costrizione permanente esercitata dalla natura per farlo crepare e se saliamo in cima alla duna, vedrete che i pini marittimi hanno sviluppato un’altra strategia per sopravvivere, quella di crescere addirittura all’orizzontale. Ed è in mezzo a questa foresta che si trovano i finferli. Un fungo magico che si nasconde sotto gli aghi dei pini, un po’ fastidioso a raccogliere, ma sono tanti numerosi che vi trovate con lo zaino pieno in una piccola ora e dovrete tornare perché i finferli cotti si conservano molto bene al congelatore e l’inverno si annuncia lungo.