Gironda: Incontro con uno scultore modenese in un giardino bordolese!

Come le alose e le lamprede che risalgono i fiumi bordolesi in primavera, vi invito a risalire con me la Garonna seguendo pigramente il corso del fiume lungo la vecchia strada provinciale che collega Bordeaux a Langon. Non vi porto a Sauternes, Sainte-Croix-du-Mont, Loupiac o Cadillac, ad assaggiare i nostri vini bianchi. Ma, a Podensac, una piccola cittadina nelle Graves, che è conosciuto nel mondo intero per il Lillet, il famoso aperitivo di Bordeaux. Perché Podensac? Non per il Lillet. In un precedente post, vi avevo fatto visitare nei Paesi Baschi, la stupenda casa dello scrittore Edmond Rostand che lui chiamava: la sua poesia di pietre e di verdure. E bene figuratevi che, a Podensac, c’è un’altra poesia di pietre e di verdure che potete visitare: il domaine de Chavat che è classificato “jardin remarquable” dal ministero della Cultura, il label più prestigioso per un giardino in Francia, credo. Non visitate lo château che stanno ancora ristrutturando, ma passeggiate nel parco che è diventato il giardino pubblico della cittadina di Podensac e che trabocca di opere dello scultore modenese Ernesto Gazzeri e non solo. La proprietà assomiglia molto a quella di Edmond Rostand a Cambo-les-Bains e potremmo essere addirittura nei Paesi Baschi o sulla costa atlantica e invece siamo in riva alla nostra cara e vecchia Garonna. Quando dico che la proprietà assomiglia a quella di Rostand, non parlo della casa o del giardino, ma dell’ambizione del proprietario di farne uno stravagante teatro di verdure e di sculture, una follia come diciamo in francese, una poesia di pietre e di verdure come diceva Rostand a proposito della sua villa di Arnaga. Come nasce il domaine de Chavat? Chavat era il nome di un modesta proprietà vitivinicola che esisteva già nel XVII secolo, una casetta con un piccolo vigneto. Niente di più. Poi, nel 1914, Chavat è comprato da François Thévenot che è un ricco imprenditore di lavori pubblici e che ha guadagnato una montagna di soldi costruendo delle dighe nei Pirenei. Dunque François Thévenot nel 1917 chiede ai migliori architetti di Francia di edificargli un sogno cioè uno château con uno splendido parco. Ma non solo un parco con le piante più esotiche che possano crescere a Podensac, ma anche un’incredibile terrazza a strapiombo della Garonna, delle grotte artificiali, delle fontane, un fiume che attraversa il giardino, un tempio d’amore, delle serre, le sculture dell’italiano Ernesto Gazzeri…ecc. La cosa più sorprendente in questo giardino è il castello d’acqua che alimenta il fiume e che è la prima opera realizzata da un giovane architetto svizzero, Edouard Jeanneret, di cui le opere sono mondialmente conosciute sotto il nome di Le Corbusier. La proprietà ha accolto per un tempo degli artisti e la più conosciuta è certamente la scrittrice Colette. Poi, negli anni 1930, François Thévenot perde tutto in seguito al crack della borsa americana e la proprietà è comprata dal comune che ne farà una casa di riposo per cinquanta anni. Poi il comune si è deciso, alcuni anni fa, di trasformare Chavat in un giardino pubblico e di ristrutturare tutta la proprietà che ha una superficie di sei ettari. I lavori non sono ancora finiti tanto il cantiere è colossale, ma comunque questo anno si festeggia i primi cent’anni di Chavat. Andateci! Non lo so. Visitate Sauternes o Barsac, poi compratevi qualcosa da mangiare e da bere e andate a fare un picnic a Chavat. Sotto i platani, in riva al fiume, un giorno di canicola. Poi, passate la giornata nel parco a passeggiare tra le statue di Gazzeri: i leoni, il mistero della vita, il soldato romano, Venere al bagno, Euterpe, Calliope, Minerva, il discobolo, la sirena…ecc. Francamente, non c’è niente di più tipico del  Sud-Ovest della Francia che di fare una cosa del genere! E se ve lo dice un bordolese…

 

 

 

In mezzo a una poesia di pietre e di verdura!

29 ottobre. Per il mio ultimo giorno nei Paesi Baschi, vi porto a Cambo-les-Bains, piccola stazione termale tipica del Sud-Ovest della Francia, dove si trova Arnaga, la villa di Edmond Rostand, padre di Cyrano de Bergerac e più grande poeta francese dei suoi tempi. Tanto sontuosa la casa con i suoi giardini alla francese e all’inglese e il suo parco di quindici ettari che Arnaga è soprannominata il Versailles basco. Non è semplicemente una casa, fu un progetto grandioso di Edmond Rostand quello di concepire una casa che sia un dialogo tra la cultura e la magia dei paesaggi pirenaici che circondano la casa. D’altronde per parlare di Arnaga, Edmond Rostand usava volentieri l’espressione: “la mia poesia di pietre e di verdura” per dire come il poeta considerava la casa come una sua creazione poetica. Non si può proprio immaginare o rappresentarsi cosa fu il successo di Cyrano de Bergerac in Francia, negli ultimi anni del XIX secolo, senza andare a Arnaga. Edmond rostand non aveva di fortuna personale e tutto quello che vedete ad Arnaga è stato pagato con i diritti d’autore che ha toccato Edmond Rostand per Cyrano de Bergerac. Una sera del 1897, l’opera teatrale è presentata al pubblico parigino, il trionfo è tale che, l’indomani, Edmond Rostand è milionario e guardato ormai come il più grande poeta francese del dopo guerra (quella del 1870 contro i tedeschi). Ma come nasce veramente Arnaga e perché fare edificare una casa nei Paesi Baschi? La storia di Arnaga nasce come una favola e finisce purtroppo in tragedia per Edmond Rostand. Siamo nel 1902 e, Edmond Rostand, alla vetta della sua gloria letteraria con le sue opere teatrali: L’Aiglon, La Samaritaine e Cyrano de Bergerac,  si ritrova di nuovo a Cambo per curare un’affezione polmonare. Il poeta ha sempre avuto una salute cagionevole. Convinto una prima volta dal suo medico di famiglia di fare una cura termale nel Sud-Ovest della Francia – la regione delle acque miracolose e dell’aria pura – Rostand ha fatto un primo soggiorno, due anni prima, a Cambo-les-Bains ed è stato ammagliato dai Paesi Baschi, poi una volta guarito, è tornato a Parigi dove si è di nuovo ammalato a causa dall’aria mefitica della Capitale. Ritorno a Cambo per curarsi. Mentre Rostand passeggia tranquillamente lungo il fiume Arraga (Cambo si trova nella vallata dell’Arraga), salendo una piccola collina che domina la cittadina e la vallata, lui è colpito dalla bellezza del paesaggio che si svela sotto i suoi occhi e decide che è il luogo ideale per edificare il progetto di casa che ha dentro di sé. Vedete la storia di Arnaga comincia come una favola. Rostand mette tutta la sua fortuna nel suo sogno. Un terreno di 31 ettari è comprato. L’architetto parigino, gran premio di Roma, Albert Tournaire, assistito dall’architetto bordolese, Pierre Ferret, sono assunti e devono realizzare tutte le idee che escono dalla mente fertile di Rostand. Tournaire, Ferret e Rostand inventano, creando Arnaga, un nuovo stile architetturale che verrà chiamato più tardi: lo stile neobasco. Oggi, le vedete ovunque queste case neobasche se fate un giro nei Paesi Baschi. Il modello di base è la cascina tradizionale basca a traliccio della provincia del Labourd (la zona intorno a Bayonne) di cui si riprende solo l’aspetto esterno cambiando tutto l’interno facendoci entrare il sole. Mentre la casa basca tradizionale è quasi al buio per proteggersi dai rigori dell’inverno e dai raggi di sole in estate, la casa neobasca è aperta sulla natura e sempre soleggiata con la moltiplicazione delle finestre, dei balconi, delle verande. Credo sia la cosa più sorprendente quando visitate Arnaga, le aperture su tutte le facciate sono fatte per dare un punto di vista sempre nuovo sui paesaggi che circondano la casa; già dal primo piano, avete l’impressione di essere alla cima di un faro. Dunque la realizzazione di Arnaga è affidata all’architetto Tournaire, ma non solo perché tutto gli arredamenti interni sono affidati  ai più grandi artisti e artigiani francesi di allora: Citiamo i pittori Gaston Latouche, Hélène Dufau, Georges Delaw, Eugène Pascau, Jean Veber, lo scultore Raoul Verlet e il genio del ferro battuto Henri Vian (il nonno di Boris Vian). Immaginate che il cantiere inizia nel 1903 ed è compiuto nel 1906! Tre anni, solo tre anni per realizzare tutta questa opera. E non c’erano le strade di oggi e con materiali che venivano da Bordeaux, Tolosa, Parigi, Londra e fino dalla Cina per i pannelli del salotto cinese! Dentro, la casa è abbastanza classica, come si immagina una casa dell’alta borghesia francese della fine del XIX secolo. Ci sono comunque delle stanze commuovente. Al primo piano, il boudoir della moglie di Edmond Rostand, la poetessa Rosemonde Gérard (conosciuta ancora oggi dai francesi solo per due famosi versi: Car vois-tu, chaque jour je t’aime davantage, Aujourd’hui plus qu’hier et bien moins que demain”) che è decorato con dei pannelli dipinti da Jean Veber e che raffigurano diversi episodi delle fiabe di Charles Perrault. Edmond Rostand e la moglie erano affascinati dalle fiabe. Anche la stanza da gioco dei bambini Rostand è la cosa più deliziosa da contemplare nella casa con i pareti dipinti da Georges Delaw e che raccontano episodi della canzone per bambini (i bambini francesi l’imparano ancora a scuola, oggi): Bon voyage monsieur Dumollet. Poi, c’è la hall inglese della casa con i dipinti di Gaston Latouche che raffigurano la Fête chez Thérèse (una poesia di Victor Hugo) con Cyrano di Bergerac, Christian o Roxane che si nascondono nei dipinti…Ci sono elementi davvero divertenti e che mostrano anche un po’ la personalità di Edmond Rostand. Il balcone nella hall dove si presentava il poeta ai suoi invitati recitando i suoi versi (il lato teatrante del poeta). Poi un orologio (potete vederla nelle immagini) che invece di iniziare a mezzogiorno, inizia alle due e se pensate che c’è un espressione francese che dice che non ci vuole cercare mezzogiorno alle due, con questo orologio, sì! Secondo la leggenda, l’orologio permetteva al poeta di cacciare gli scrocconi che si presentavano sempre ad Arnaga all’ora del pranzo. Mi dispiace diceva il poeta, abbiamo già mangiato, guardate l’orologio, ad Arnaga sono le due. Poi gli scrocconi erano riaccompagnati “gentilmente” al portone della proprietà. C’è un altro aneddoto divertente a proposito di uno scherzo che faceva Rostand ai suoi invitati e che è legato all’elettricità. Non pensate perché siamo nel 1906 che il poeta non aveva l’elettricità e il riscaldamento elettrico. Pensate davvero che con la sua salute cagionevole, Rostand avrebbe aperto la sua casa di 600 metri quadrati ai quattro venti e che avrebbe fatto rasare foreste intere per riuscire appena a scaldarsi un po’ le ossa in inverno? Infatti la casa è stata la prima casa provvisto dall’elettricità nei Paesi Baschi a un’epoca o l’elettricità era riservata all’illuminazione pubblica e agli edifici della Repubblica. Semplicemente Rostand ha chiesto all’ingegnere che si occupava della stazione idroelettrica della zona di potere collegarsi alla rete. Un generatore fu sistemato nelle scuderie e Rostand ebbe l’elettricità! E non parliamo di quattro lampade perché la potenza elettrica che poteva ricevere Arnaga era l’equivalente di quella di uno stadio di calcio odierno. Quindi elettricità e riscaldamento a pavimento era già la norma ad Arnaga nel 1906. Bene, allora Rostand che era teatrante quando riceveva della gente, aveva, durante i pranzi, un piccolo campanello elettrico nascosto e lui lo usava per fare apparecchiare e sparecchiare la tavola dalle domestiche. E tutti gli invitati di essere allibiti davanti a questo balletto. Ma come, mentre tutte le porte sono chiuse, fanno le domestiche dalle cucine nel sottosuolo per sapere quando ci vuole portare un piatto o sbarazzare la tavola? si chiedevano i poveri diavoli tornando a Parigi con questa enigma da risolvere in mente. Dunque vedete niente sembra potere offuscare la felicità della famiglia Rostand. Ma finalmente, Rostand, questa villa di Arnaga perché veramente l’ha fatta edificare? Sicuramente c’era l’angoscia di lasciare un’opera, una poesia di pietre e di verdura come lui diceva, qualcosa che sopravvivrebbe alle sue opere letterarie dopo la sua morte. Le opere letterarie cadono nel dimenticatoio, le case tipo Arnago rimangono per il postero. E lui, nel fondo, non pensava che il suo successo fosse una cosa acquista per sempre. E, su questo, purtroppo, il poeta non aveva torto. Siamo nel 1910, Rostand, dopo anni e anni di lavoro, scrive le ultime battute dell’opera teatrale Chantecler che lui pensa essere il suo capolavoro assoluto, che dovrebbe aver ancora più successo di Cyrano de Bergerac. Io, Chantecler, non l’ho mai visto al teatro, ma so che è la storia di un gallo che pensa che è lui ogni mattina che fa sorgere il sole, di un merlo che pensa conoscere le arie che avranno successo prima degli altri, di un pavone che si crede sempre vestito all’ultima moda….Rostand, secondo la leggenda, avrebbe avuto l’idea dell’opera osservando un gallo particolarmente vanitoso nel pollaio di Arnaga…insomma, attraverso il gallo Chantecler, Rostand vuole denunciare la società del suo tempo. La prima di Chantecler è un flop colossale. In una sera, Rostand era diventato milionario con Cyrano de Bergerac, in una sera, Rostand si ritrova rovinato, non solo per i costi faraonici dello spettacolo, ma anche perché i diritti d’autore che lui ha preso in anticipo per Chantecler sono stati  inghiottiti nella villa di Arnaga ed è ovvio che l’opera non sarà mai più data nei teatri parigini dopo il fiasco. I soldi sono una cosa, ma anche la reputazione di poeta di Edmond Rostand è a pezzi. Rostand perde assolutamente tutto in una sera. La gente non si riconosce assolutamente in questi animali. Lo spettacolo non è capito ed è giudicato grottesco. La critica lo massacra. Il disastro è assoluto. Dunque Rostand si rinchiude ad Arnaga e non vuole più sentire parlare di Chantecler tranne che tutto è là per ricordargli il disastro e ci sono stanze intere che lui ha fatto decorare alla gloria di Chantecler durante la costruzione della casa. Le domestiche non hanno il diritto di evocare Chantecler, gli amici che vengono da Parigi sono imbarazzati e gli mentono un po’ per risollevargli il morale. Non c’è niente da fare. Il poeta cade in una profonda depressione e da questo anno 1910 fino alla sua morte, Rostand avrà solo un successione di sfortune. (penso alla separazione con la moglie. Loro si adoravano, ma vivere continuamente in questo clima…). Esco dalla villa per passeggiare nel giardino alla francese. Dopo la nebbia di questa mattina, il sole comincia a sorgere in mezzo alla poesia di pietre e di verdura. Un gallo si mette a cantare.

Paesi Baschi: La Madonna che contempla l’oceano sul confine tra l’Austria e la Francia!

L’ho già detto in un altro post, ma secondo me, Ainhoa, è tra i più bei borghi medievali dei Paesi Baschi e anche del Sud della Francia. E siccome sono ancora nei Paesi Baschi per qualche giorno, ho deciso di portarvi di nuovo ad Ainhoa per far un’escursione fino alla cima del Monte Atsulai che culmina a 390 metri di altezza e dove si trova una cappella dedicata alla Madonna del Biancospino (Arantzazuko Ama Birjinaren kapera in basco). Madonna che è apparsa sull’Atsulai, una volta, a un pastore a prossimità di una fonte miracolosa che ha il potere di guarire le malattie della pelle e che fa quindi la disperazione di tutti i dermatologi della regione. Ma vi racconterò la storia dell’apparizione della Madonna del Biancospino, una volta che mi sarò dissetato alla fontana della Birjina (vergine) situata a ridosso della Kapera (cappella). Fa caldo da non crederci  per un fine ottobre e mi tarda veramente di arrivare alla fontana. Sono davvero un tipo strano e mentre tanti dei miei concittadini bordolesi stanno facendo la spesa nelle ventas di Dantxaria, io cosa sto facendo?  un’escursione in montagna! Il richiamo della montagna? No, è solo che sono da qualche giorno all’interno dei Paesi Baschi e che l’Oceano mi manca e quindi mi sono deciso a conquistare l’Atsulai per vedere qualcosa di familiare di lassù. Non ridete, ma l’Atsulai per me è come l’Himalaya perché 390 metri di altezza non sono niente per qualcuno che vive nella penisola del Médoc dove il punto più alto si trova a 40 metri sopra il livello del mare! Diciamo che la mia limite sono i cento metri della duna del Pilat sul Bacino di Arcachon e ancora in cima ho già orecchie tappate, allora figuratevi sull’Atsulai! Mi vedo già a spalancare la bocca, sbadigliare, gonfiare le guance, fare tutta una serie di smorfie per stappare le mie povere orecchie. Spero solo di non spaventare i pottok (cavalli baschi) che pascolano in libertà nella montagna, ma forse l’acqua della fontana è buona anche per le orecchie bordolesi che hanno problemi di pressione! Già sento ancora il belare delle pecore, è già qualcosa! Il sentiero è anche una via crucis e, in vetta, un po’ dopo la cappella c’è un calvario. All’inizio contavo le croci delle stazioni sul cammino, poi ho dimenticato davanti allo spettacolo della fioritura dei crochi selvatici, della bellezza della cittadina di Ainhoa ai piedi della montagna, dei grifoni veleggiando nei correnti ascensionali dei cieli baschi sperando che qualche pecora abbia l’idea di rompersi il collo in un burrone, della vista delle antiche cascine basche bianche e rosse, disseminate nelle colline tondeggianti della vallata della Nivelle, e che hanno tutte le porte orientate verso l’est come gli ovili del mio vecchio Paese, per proteggersi dal vento del golfo di Biscaglia e accogliere i primi raggi del sole. Dopo un’ora di camminata, arrivo alla fontana e saluto la Madonna che è stata sistemata sopra, alla fine del XIX secolo, in una piccola grotta artificiale. Sono miscredente, ma non sono maleducato quindi le offro un piccolo mazzo di croco che ho raccolto sul cammino, dopotutto lei mi offre una meravigliosa acqua fresca che viene dal cuore dell’Atsulai. All’inizio del post, vi ho detto che la Madonna del Biancospino (Arantzeko Birjina in basco) è apparsa a un pastore. Immaginate, siamo nel Medioevo e il ragazzo ha imboccato esattamente lo stesso cammino di me per portare il suo gregge a pascolare sull’Atsulai. Arrivando dove mi trovo, al livello del ruscello che correva allora all’ombra di un Biancospino, il pastore si accorge che qualcosa splende nel Biancospino. Si avvicina, intrigato, ed esclama: Aranza zu! (lei in un Biancospino!). Il ragazzo scende la montagna in fretta per annunciare che lui ha visto la Dama. Ovviamente, il ragazzo non è creduto, ma dopo qualche tempo, lui riesce a convincere gli abitanti di Ainhoa e loro si decidono a edificare una cappella nel quartiere (quartiere ha il senso di frazione in basco) di Karrika, ai piedi dell’Atsulai. Cosa succede allora? I materiali da costruzione portati la giornata a Karrika, si ritrovano misteriosamente l’indomani mattina in cima all’Atsulai e quindi gli abitanti di Ainhoa vedendoci un segno divino, edificano la cappella al posto dove si trova oggi. Ancora un tornante per raggiungere la cappella della Madonna del Biancospino sopra la fonte. Il panorama è magnifico. Di fronte, la cima di La Rhune, la montagna sacra dei baschi, è avvolta nelle nuvole. Sotto i miei piedi la vallata della Nivelle, poi, nel lontano verso Nord, mi immagino le Lande di Guascogna. Ad Ovest, si vede fino a Saint Jean de Luz e l’Oceano si confonde con l’orizzonte. A sud, a qualche centinaia di metri dal mio posto di osservazione, c’è la Spagna. Notate che non conta che sia la Spagna o la Francia perché gli abitanti sono esattamente gli stessi. Il mio sguardo abbraccia tutto il circo di Xareta e una prossima volta, vi porterò in Spagna, a due passi di Ainhoa, nel villaggio di Zugarramurdi e le sue famose grotte dove durante il Medioevo, le streghe basche ci facevano il Sabba. Sotto i miei piedi ancora, dal lato spagnolo, la vallata di Baztán, paradiso degli escursionisti, che, recentemente, è stata resa mondialmente celebre dai libri di Dolorès Redondo che scrive dei gialli che mescolano thriller e mitologia basca. Io l’avevo trovata sempre ridente e simpatica questa vallata di Baztán, ma secondo la scrittrice, ci si vive ancora il Basajaun, la Dea Mari, i Laminak e tante altre creature delle leggende basche. Devo dire che, adesso che ho letto la sua trilogia, la trovo più inquietante, ma forse saranno solo le nuvole nere che corrono sopra il Baztán! Passo il pomeriggio in questo luogo magico: ad accarezzare i pottok, a tentare di decifrare i misteriosi simboli sulle riproduzioni delle steli discoidali basche. Capisco perché c’è sempre stato un eremita a vivere a prossimità della cappella, dal Medioevo fino alla meta del XIX secolo, voglio dire tutta questa bellezza, questo silenzio….Va bene, è già tempo per me di tornare a malincuore verso questa fottuta “Civiltà”.

Teaser: La Madonna che contempla l’oceano sul confine tra l’Austria e la Spagna!

101_2446

La settimana prossima verrà pubblicato un post su un luogo magico sul confine tra l’Austria e la Spagna. Non mancate!

Nota per i lettori scarsi in Geografia che non sanno che l’Austria e la Spagna hanno un confine comune:

La regione di Bordeaux si chiamava l’Aquitania, poi con la riforma regionale del 2015 e l’aggiunto dei dipartimenti delle Charente e quelli del Limosino all’Aquitania, la regione ha preso il nome di Nuova Aquitania. In superficie la regione Nuova Aquitania è più grande dell’Austria e posso dirvi che questo fatto è molto sottolineato dai nostri media locali. All’inizio si leggeva volentieri nei giornali: la regione Nuova Aquitania è grande quanto il Portogallo! Tranne che era solo una sbruffonata inventata dai giornalisti e dai nostri politici locali perché è falso, la Nuova Aquitania fa 8000  km² di meno del Portogallo! Quindi si è dovuto cercare un Paese più modesto  in Europa a cui potevamo paragonarsi e abbiamo trovato l’Austria che, con i suoi miserabili 83 879  km², non può competere con i 84 061 km² della Nuova Aquitania. Da allora, ci vantiamo di avere una regione più grande di un paese come l’Austria e non importa che non abbiamo la minima idea di cosa sia come tipo di paese l’Austria, che siamo incapaci di situarvi l’Austria su una mappa geografica o di raccontarvi due aneddoti storici su questo paese. Ormai la vera Austria siamo noi!

In cui si scopre che San Francesco d’Assisi amava soprattutto gli uccelli…al cappuccino!

Cottura della palomba al cappuccino nei Paesi Baschi.

Non parliamo dell’orrenda bevanda italiana a base di caffè, per favore. Noi francesizziamo tutto quindi il termine italiano cappuccino è stato francesizzato in capucin quindi un frate dell’ordine di San Francesco d’Assisi con il cappuccio riconoscibile tra mille è un capucin in Gallia. Non solo questo. Una barba di cappuccino (barbe de capucin) è una specie di cicoria selvatica particolarmente amara. I cappuccini (les capucins) sono anche il nome di tutta una coorte di scimmie sudamericane antipatiche. La capucinade è il discorso tipico tenuto da un cappuccino cioè un discorso di morale che suona completamente piatto. Ho nell’idea che non erano simpatici ai francesi i correligionari di San Francesco d’Assisi! Non è il caso nel Sud-Ovest della Francia dove la parola capucin cioè  cappuccino designa tutto questo, ma anche un’altra cosa cioè un infernale e divino attrezzo di cucina che sarebbe stato inventato addirittura da San Francesco d’Assisi e che è un’asta su cui è fissato un imbuto che assomiglia al cappuccio di un cappuccino e di cui i golosi  frati cappuccini non potevano fare a meno durante la stagione degli uccelli e in particolare quella della palomba in autunno. Insomma, Il diabolico attrezzo serve a battezzare gli uccelli, non con acqua benedetta, ma con il fuoco. A fine cottura degli uccelli, si fa arroventare nel camino il cappuccio del cappuccino, poi ci si verse dentro del lardo o del prosciutto e il grasso infiammato si mette a scolare e ad accarezzare gli uccelli, a caramellarli e vi mettete a capire perché San Francesco d’Assisi si metteva a recitare dopo aver inghiottita la sua palomba al cappuccino: “Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu, per lo quale ennallumini la nocte: ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.” 😉

 

Vino: In cui si cercherà a capire perché San Vincenzo è diventato il patrono dei vignaioli!

San Bixente, Saint Vincent

San Bixente in basco, saint Vincent in francese, San Vincenzo in italiano. Diacono martirizzato nel IV secolo e patrono dei vignaioli francesi dal XVI secolo. Statua del XVIII secolo proveniente dall’antica chiesa di Irouléguy è esposta al museo di Bayonne.

Di solito, i bordolesi si interessano soltanto a Saint-Estèphe e Saint-Emilion, ma ho deciso di parlarvi di questo tizio spagnolo, Vicente (Vincent in francese), che è diventato il santo patrono dei vignaioli. Dimenticate il proverbio italiano che dice che non ci vuole scherzare con i santi perché la scelta in Francia di San Vincenzo come patrono dei vignaioli sarebbe nata da un calembour. Notate che anche alla Chiesa piacciono i calembour e non dimenticate il famoso: Tu sei Pietro e su questa pietra…ecc. È la stessa cosa per Vincent e il tizio  sarebbe stato scelto da alcuni vignaioli ubriachi perché era l’ultimo saint Vincent disponibile e ci voleva assolutamente un Vincent perché il nome permette un calembour che vale bene quello su san Pietro. La prima sillaba di vincent è vin (vino) e la seconda (cent) è omofona di sang (sangue). Vincent cioè Vin-Sang (vino-sangue) e per un tizio che era in più diacono cioè la persona in carica di versare il vino nel calice durante la messa e non mi dite che non trovate l’aneddoto un po’ divertente, altrimenti vi chiedo di ripensarci un po’ dopo due o tre bicchieri! Nelle altre lingue, non funziona affatto il gioco di parole quindi trovo un po’ ridicolo un san Vincenzo italiano o un san Vicente spagnolo, patrono dei vignaioli.

Non siete convinti da questa spiegazione? Per dire la verità, anch’io la trovo un po’ fantasiosa quindi proseguiamo la ricerca e tentiamo di capire perché un santo spagnolo del IV secolo, che non ha mai avuto niente a che vedere con il vino, è diventato il patrono dei vignaioli (e di tutti quelli che lavorano nel campo viticolo) nel XVI secolo in Francia. Un’altra ipotesi dice che non sarebbe il nome Vincenzo che conta, ma il modo in cui san Vincenzo è stato giustiziato e che gli ha dato l’onore di diventare il patrono dei vignaioli. Non si scherzava all’epoca e san Vincenzo fu condannato da Daciano, l’uomo di fiducia dell’imperatore Diocleziano, ad aver il corpo pestato, schiacciato in tale modo di fare schizzare il suo sangue come il succo d’uva che gronda sotto la violenza del torchio e si dice anche che san Vincenzo fu messo addirittura in un torchio e che l’hanno spremuto! Io non ci credo ancora meno a questa ipotesi che spiegherebbe la scelta di san Vincenzo, patrono dei vignaioli, perché la metafora è davvero orrenda per dei vignaioli che sono piuttosto persone gioiose. Ma ti piomba una serata intorno al vino di raccontare il supplizio di san Vincenzo! A me il supplizio evoca l’anatra al sangue se avete già sentito parlare di questo famoso piatto della tradizione francese, forse san Vincenzo non sarebbe stato male come patrono dei macellai! Ma non finisce qui il martirio di san Vincenzo, una volta morto, il corpo è cucito in una pelle di bue e buttato in mare al largo di Valencia e miracolo! Quando i marinai, una volta il lavoro fatto, tornano al porto, cosa vedono? la salma che li aspettava tranquillamente sulla riva! E nessuno ha pensato a fare di San Vincenzo il patrono dei marinai, dei naufraghi e dell’acqua invece del patrono dei vignaioli?

Adesso lasciamo la Spagna e trasportiamo in Francia, a Parigi, sulla riva sinistra della Senna, ai tempi del re Childeberto I che ci fa edificare un’abbazia chiamata Santa Croce-San Vincenzo e dove arrivano due reliquie del santo: una stola e un braccio. E cosa succede secondo voi in questa abbazia che possedeva dei vigneti in tutta la regione parigina? I monaci vignaioli fanno di san Vincenzo, il loro protettore contro il gelo e la grandine. Poi , il culto di san Vincenzo si diffonde ad altri vigneti e contamina tutto il territorio (non Bordeaux perché non ci crediamo noi ai poteri dei santi, ma in Borgogna ci credono a san Vincenzo, eccome che ci credono!). Forse non vi dice niente Santa Croce-San Vincenzo eppure è una delle chiese più conosciute di Parigi, ma oggi si chiama abbazia di Saint-Germain-des-Près perché, tre secoli dopo le reliquie di san Vincenzo, la chiesa ha ricevuto le reliquie di sain Germain di cui il culto ha soppiantato quello di san Vincenzo. Se andate al café de Flore, non potete mancare l’abbazia…Devo dire che questa ipotesi per san Vincenzo patrono dei vignaioli mi sembra più verosimile.

Ci sono anche altre ipotesi. Per esempio sempre con questa storia di calembour perché il nome Vincent è una rima facile da utilizzare in mille proverbi che riguardano la vigna. Un’altra ipotesi sarebbe che l’asino di san Vincenzo avrebbe brucato un vigneto e quindi inventato la potatura tranne che non è l’asino di san Vincenzo ma l’asino di san Martino ad avere commesso il delitto. Poi si dice ancora che san Vincenzo si festeggia il 22 gennaio quindi più o meno al momento del risveglio della vigna e dunque sarebbe la ragione per cui san Vincenzo sarebbe il patrono dei vignaioli..

Notate che questo san Vincenzo tiene duro in un paese  scristianizzato come la Francia e il suo culto è molto vivace, soprattutto dai selvaggi della Borgogna dove il santo si festeggia con tante messe, prediche, benedizioni, processioni…ma in mattinata perché il pomeriggio è dedicato solo a Bacco. ..Una volta, non c’era solo san Vincenzo, l’ultimo scampato, ma una quantità inverosimile di santi che proteggevano i vigneti: San Vernerio, san Martino, sant’Urbano, San Marcellino…ecc…ecc. La buona sorte di san Vincenzo è che è stato tra i più tardivi e che non ha avuto a subire la rabbia dei vignaioli quando loro si accorgevano che tutti i santi e sante non potevano niente contro il brutto tempo. A questo proposito, c’è un aneddoto divertente che riguarda Sant’Urbano, un predecessore di San Vincenzo. Siamo il 25 maggio 1682, giorno della Sant’Urbano a Rouffach in Alsazia quando eccezionalmente nella notte si mette a gelare. Cosa fanno allora i vignaioli del paese che vedono i loro vigneti distrutti? Vanno in chiesa, prendono la statua di Sant’Urbano e la buttano in un fontana gridando al santo: “Non vuoi darci del vino, allora bevi anche tu dell’acqua!” 😉

Paesi Baschi: In cui l’autore di questo blog vi racconta una fiaba a proposito dei Mamurrak!

100_2295

Sempre sabato scorso nei Paesi Baschi. Pomeriggio ad Ainoha sul confine tra la Francia e la Spagna. Secondo me, Ainoha è semplicemente il più bel paese del sud della Francia. Ma noi, bordolesi, passiamo ad Ainoha soprattutto per andare a Dantxaria a due passi dove facciamo il pieno di sigarette, alcol e salumi. Lo scatto è stato preso dal camposanto di Ainoha perché volevo parlarvi di una bellissima tradizione basca di una volta che riguardava la morte e un certo tipo di insetto. Poi ho cambiato idea e, in questa bellissima giornata soleggiata, ho deciso di raccontarvi una favola basca che parla di altri insetti e che non è senza rapporto con il post che avevo previsto e che sarà pubblicato, se me lo ricordate, probabilmente per Ognissanti.

Prima la favola, devo dirvi due parole sui Mamurrak baschi. I Mamurrak (hanno diversi nomi in basco) sono dei geni della mitologia basca che possono essere catturati la notte che precede la San Giovanni ponendo un astuccio per aghi aperto su un cespuglio. Certi dicono che sono degli insetti tipo delle mosche, altri pretendono che sono addirittura degli uomini minuscoli che portano dei pantaloni rossi. Come tutti i geni, i mamurrak possono essere utili o dare fastidio come lo racconta la favola sotto:

A casa Mendiondo, c’era un padrone che era un gran pigrone, eppure i lavori della sua fattoria erano sempre terminati i primi. Una mattina, in appena un’ora, il prato sotto la casa si trovò falciato; una domenica, durante il tempo della messa, tutto il frumento di un campo fu tagliato. Tutta la gente era sorpresa perché non si vedeva mai un bracciante a casa sua. Anche la moglie del padrone si fidava di lui. Una domenica come lui andava in chiesa, egli nascose qualcosa in un cespuglio. La moglie lo vide da lontano e fu curiosa di sapere cos’era. Lei  scoprì un astuccio per aghi. Lo aprì e ne uscì una decina di mosche. Queste mosche le andarono agli occhi e alle orecchie chiedendo: “Che fare? che fare? che fare?”. Sbalordita, la donna disse: “Rientrate nello stesso buco” e subito le mosche rientrarono nell’astuccio. Lei lo racchiuse e lo rimise al suo posto. La moglie non mise molto tempo a raccontare al marito quello che le era successo, e, lui, confessò che erano queste mosche che facevano tutti i lavori della fattoria. A partire da questo momento, le mosche effettuavano tutto il lavoro, qualunque sia, che la donna loro dava. Un giorno, le mosche la tormentavano dicendo rumorosamente: “Lavoro! lavoro! lavoro!” La moglie del padrone stanca diede un setaccio alle mosche e disse: “Andate e riempite la botte vuota che si trova in cantina portando dell’acqua dentro questo setaccio dalla rete del molino, poi la metterete al prato sotto casa”. E lei di pensarsi tranquilla per qualche ora. Dopo un breve momento, avendo finito questo lavoro, le mosche tornano e si rimettono a cianciare: “Lavoro! lavoro! lavoro! lavoro!”. La moglie ne potendo più di queste mosche, andò a trovare il marito e disse: “Che miracolo è questo? Dobbiamo sbarazzarsi di queste mosche! – Sì, rispose il marito, ma purtroppo dobbiamo a ognuna uno stipendio. – Ci sono dieci oche che vivono sotto il tetto ; diale loro, disse la moglie.” (n.b: la lingua basca non conosce il tu). Appena la frase fu pronunciata che le oche volarono via a gran voce verso le nuvole, e le mosche di Mendiondo non riapparvero più.

Paesi Baschi: La ragazza basca che portava i calzoni!

13-612571

Veduta di Bayonne. Paul Signac (1863-1935)

Ho trascorso il mio sabato nei Paesi Baschi e mentre pranzavamo in terrazza, ai piedi della cattedrale di Bayonne, con un semplice piatto di salumi accompagnato da un bicchiere di Rioja, un gruppo di cantanti baschi si è messo ad interpretare qualche brano di una pastorale basca (è un pezzo di teatro dove si canta e si balla) che è stata recitata quest’anno a Bayonne e nei dintorni e che mette in scena la vita di Catalina de Erauso (una cosa piuttosto rara perché sono sempre uomini che sono  protagonisti in queste pastorale). Catalina de Erauso detta ancora la monaca Alferez è conosciutissima in tutta la Spagna quanto Don Chisciotte. Ma chi era questa fottuta Catalina de Erauso? (Notate che il brevissimo riassunto della vita di Catalina che ho scritto sotto ha solo la modesta pretesa di svegliare eventualmente la vostra curiosità e se mi chiedete un’opera per andare più avanti, vi consiglio di leggere il romanzo che Thomas de Quincey ha scritto su di lei: Le avventure di una monaca vestita da uomo).     

Catalina de Erauso è un personaggio storico  che è veramente esistito anche se la successione di eventi particolarmente straordinari e rocamboleschi che hanno costellato la sua vita possono farvene fortemente dubitare. La tizia nasce nel 1585 a Donostia che è il nome basco della città di San Sebastiano ed è messa molto presto in pensione in un convento per ricevere quello che si chiamava allora un’educazione di donna. Lei scappa dal convento all’adolescenza per menare una vita d’uomo perché non le conviene la vita che le suore hanno deciso per lei. Cosa fa allora la nostra Catalina de Erauso? Travestita in paggio, la ragazza circola attraverso tutta la Spagna vivendo alla giornata, praticando il brigantaggio e qualche piccolo lavoro quando non c’è qualche ricco da depredare. Poi, Catalina si stanca di questa esistenza diciamo picaresca per usare di un termine di origine spagnolo, insomma come lei si era stanca della sua vita al convento. Cosa può fare allora il nostro tornado basco per guadagnare il pane? Catalina decide di tentare l’avventura nelle Americhe e siamo nel 1602 quando la ragazza di diciassette anni sbarca a Panama. E di lì, la sua vita non è più che una serie di drammi sanguinosi e di omicidi. Per sfuggire all’impiccagione per omicidi, Catalina si arruola nell’esercito – che è solo una condanna a morte differita all’epoca – e da libero sfogo ai suoi istinti e si mette a massacrare a gara e, nell’esercito, trovano che è tanto bravo e coraggioso a fare il mestiere questo ragazzo che Catalina è nominata al grado di Alferez che in italiano significa Portabandiera. Di nuovo costretta a sfuggire, Catalina parte dalla Concepción in Cile con lo scopo di raggiungere San Miguel de Tucumán, una città del Nord dell’Argentina. E per questo, la ragazza deve attraversare addirittura tutta la Cordigliera delle Ande e lei ci riesce, a piedi quasi senza cibo e acqua, ma questo lo racconta Catalina e la sua leggenda e molti dubitano della veracità di questo viaggio. Comunque, in un ennesimo duello, Catalina è gravemente ferita e non ha altra scelta che di trovare rifugio in un convento e di svelare alle suore, che comunque non sono cieche, che lei è una donna. Figuratevi, cari lettori, come il rumore si propaga alla velocità della luce in tutto il reame della Nuova Spagna. Il fottuto tizio che, da anni, mette a ferro e fuoco tutto il reame è una donna! Sbalordimento. E per sbarazzarsi di Catalina, le autorità religiose, completamente scocciate da questo caso, decidono di rispedire catalina in Spagna. Il Re deciderà delle sorti della diabolica ragazza. Durante la traversata da Santa Fe a Barcellona, Catalina trova il tempo di scrivere le sue famose memorie che ci affascinano ancora oggi. Arrivata in Spagna con la sua faccia tosta tutta basca, Catalina riesce a convincere il Re Filippo IV, non solo di non farla impiccare, ma di versarle una pensione per i suoi ottimi servizi nell’esercito. Poi, di passaggio a Roma, la tizia è ricevuta in audienza dal pontefice Urbano VIII che la confessa, le dà l’assoluzione dei peccati e la autorizza a continuare a vivere come un uomo portando dei vestiti maschili. Pensate che la storia di Catalina sia finita? Assolutamente no! La vita rocambolesca di Catalina prosegue senza tregua. La monaca Alferez come viene chiamata allora Catalina da tutta la Spagna, si imbarca per il Messico e, sotto il nome di Antonio de Erauso, si mette a fare il mulattiere per guadagnare la sua vita. Sono gli ultimi elementi che conosciamo della vita di questo intrepide bersagliere della Biscaglia, così il destino di Catalina finisce su un mistero…

 

 

Parigi: Seguendo un gatto flaubertiano e scherzoso nel cimitero dei vanitosi!

In questa quarta parte del mio soggiorno a Parigi, c’è un lessico:

Bidassoa: fiume della regione Aquitania sul confine tra la Spagna e la Francia. Sulla sponda Nord, la città francese di Hendaye, sulla sponda Sud, la città spagnola di Hondarribia (Fontarrabie in francese).

Drôlement: avverbio francese che significa “molto, assai, parecchio e che l’autore di questo blog usa in modo buffo ogni quattro parole.

Hondaribbia: città spagnola conosciuta da tutti i bordolesi che ci vanno il weekend per comprare sigarette, alcol, formaggi…ecc. Andate al supermercato Alcampo di Hondaribbia e ci troverete solo gente di Bordeaux.

M’as-tu-vu: espressione francese di mia nonna per designare un pavone, una persona vanitosa…ecc. Letteralmente: Mi hai visto.

Mistigri: gatto in francese.

Pinard: modo peggiorativo ma simpatico per dire vino in francese, deriva dalla parola Pineau, credo. Non è negativo: Mouton-Rothschild è un buon pinard.

Merlot: vitigno vanitoso che sta conquistando il mondo perché non è sensibile alle malattie come il delicato Cabernet-Sauvignon. Esistono persone snob che usano addirittura “merlot” per dire “vino.”

Guardarsi in cane di maiolica (Se regarder en chien de faïence in francese): significa guardarsi in modo ostile e silenzioso.

———————————————————————

Il bel tempo è tornato e l’affittacamere mi suggerisce di fare un giro al cimitero del Père Lachaise. Appena cinque minuti da casa. Tutto diritto. Basta imboccare la via della Bidassoa per qualche centinaia di metri e lei è arrivato. Lei mi vede esitare: cosa c’è ancora? A lei non piacciono i cimiteri? Ancora una delle sue misteriose superstizioni bordolesi?  Drôlement che mi piacciono i cimiteri, rispondo, sono stato allevato da due streghe del Médoc, è solo che temo di essere colpito da un diluvio via della Bidassoa. Lei conosce il clima dei Paesi Baschi? Piove drôlement! Una volta ho trascorso una settimana a Hondarribia e pioveva tanto che sono rimasto sette giorni senza vedere né l’Oceano né i Pirenei! E, secondo me, i parigini non avrebbero dato questo nome alla via senza una ragione, no? Lei ride e tenta di rassicurarmi che non c’è un microclima basco in via della Bidassoa, che siamo a Parigi, che un tizio di Bordeaux avrà sicuramente la pioggia nel suo dna e che comunque il bollettino meteo annuncia solo una tempesta di cielo blu. Ovviamente, credulone come sono, parto all’avventura senza ombrello e arrivo alle porte del cimitero, bagnato fino agli slip e le scarpe da buttare. Maledetta affittacamere! Fortunatamente, ha smesso di piovere e non sono più solo a passeggiare nel vecchio cimitero. I turisti ed i gatti si sono messi a spuntare come i gallinacci dopo una pioggia di giugno nel Paese Mezzo Morto. Io non ho una mappa o un’applicazione smartphone per indicarmi le tombe dei m’as-tu-vu che sono stati seppelliti nel cimitero. E poi non mi interessa troppo di seguire una mappa, di fare il percorso che fanno tutti gli altri visitatori. Non mi interessano le tombe delle vecchie principesse russe, degli scrittori, dei musicisti, dei generali delle guerre napoleoniche. Io, come tutti i membri della mia famiglia, sono un lettore di epitaffi e, come sono stato allevato da due streghe del Médoc, so che devo trovarmi un gatto che mi servirà di guida per scovare i più sinceri, i più bei, i più commoventi che non si trovano mai presso le tombe più maestose perché i vanitosi hanno un debole per le parole altisonante. Il gatto mi guarda, un vecchio mistigri parigino che ha dovuto essere di colore rosso in una vita precedente. Mi piace drôlemente questo gatto e decido di chiamarlo Flaubert. Questo gatto è sicuramente un lettore diligente di Flaubert oppure la reincarnazione dello scrittore. Mi piace il suo atteggiamento, il suo modo di passare sprezzantemente davanti alle tombe più sontuose senza buttarci  nemmeno uno sguardo. Osservo l’attitudine del gatto e mi torna in mente quello che ha scritto Flaubert quando il tizio ha visitato il cimitero di Bordeaux che assomiglia drôlement al Père Lachaise:

“Qui la vanità ha fatto ricorso alla sciocchezza che l’ha ben assecondata. Piramidi di granito sono ammucchiate sui bottegai,  sarcofagi di marmo sugli armatori; nel giorno del giudizio coloro che hanno più pietre addosso forse non saranno i più lesti a salire in cielo, carichi come saranno del peso del loro orgoglio” (Flaubert in Viaggio nei Pirenei).

Il gatto mi guida attraverso le tombe dei m’as-tu-vu senza mai lasciarsi avvicinare. Lo perdo, slitto sui sampietrini bagnati, metto i piedi in tutte le pozzanghere del cimitero, ma riesco a seguirlo chissà come (in realtà, il gatto sta giocando con me). Ad un momento penso raggiungerlo, ma il gatto si infila dietro una tomba in forma di cappella gotica e sparisce. È la fine della nostra collaborazione e so che devo cercare i miei epitaffi in questo angolo del cimitero. Alzo gli occhi per leggere il cognome inciso sulla tomba…

Created with Nokia Smart Cam

E leggo: Famiglia Pinard. Possibile che il gatto Flaubert mi abbia portato qui, non per gli epitaffi, ma solo per fare uno scherzo ad un abitante di Bordeaux? Mi viene un dubbio e senza pensarci volto le spalle per guardare la tomba di fronte…

 

Created with Nokia Smart Cam

Famiglia Merlot! Scoppio dal ridere davanti a questo scherzo oppure a questa coincidenza del destino. Immagino già la testa dell’affittacamere quando lei mi chiederà della mia visita al cimitero: Allora, lei cosa ha visto? Qualcosa legato al vino. Un gatto mi ha mostrato la tomba della famiglia Pinard che guarda in cane di maiolica quella della famiglia Merlot ed è drôlement drôle!

Paesi baschi: E adesso gli animalisti se la prendono con il gioco dell’oca!

Aquitania. Paesi Baschi. Incredibile, vogliono sostituire l’anatra o l’oca con una specie di piñata! Cari lettori e lettrici, conoscete il gioco dell’oca? è un gioco che, una volta, era molto popolare nei Paesi Baschi e domani si svolgerà un gioco dell’oca durante le feste di Cambo-Les-Bains e Brigitte Bardot e la sua fondazione hanno deciso di manifestare contro questa tradizione e di proporre addirittura di sostituire l’anatra con uno zimbello in plastica o con una piñata!

Il gioco dell’oca (antzara jokoa) che oggi dovrebbe piuttosto chiamarsi il gioco dell’anatra (ahate jokoa) si svolge di solito la domenica delle feste patronali. Questa gara si gioca dal medioevo nei Paesi Baschi e non appartiene proprio alla tradizione basca quindi potete trovare il gioco dell’oca in altre regioni europee. Il gioco consiste a tendere un cavo orizzontale attraverso una strada, un frontone (un campo di pelota basca), ad altezza di una coppia cavallo-fantino e a sospenderci un’oca legata per le zampe. Il ruolo del fantino lanciato al galoppo è di staccare il collo della bestiola. Il primo fantino che tenta l’exploit utilizza una sciabola smussata ed è chiamato Re. Il gioco dell’oca fu adottato dalla provincia del Labourd durante il soggiorno nei Paesi Baschi di Carlo IX nel 1565. Un secolo più tardi, l’antzara jokoa (il gioco dell’oca) fu vietato da Pierre de Lancre durante i grandi processi di stregoneria nei Paesi Baschi. L’inquisizione cattolica vedendo nel gioco dell’oca un rito iniziatico alla magia. Per dire la verità, non è del tutto falso: è qualcosa legato ad un rito pagano. Storicamente, la bestiola sospesa raffigura in modo mitico la iella che il popolo deve scongiurare a tutto costo. L’anatra o l’oca simboleggiavano i grandi flagelli – la carestia, le epidemie come la pesta o la lebbra – e i cavalieri erano mandati e pagati dagli abitanti per strappare la testa dello spirito malvagio simbolizzato dall’oca. Vi rassicuro, oggi, l’oca o l’anatra non è più sospesa vivente come una volta. Dal 1924, le bestiole sono le stesse che potete trovare quando fate la spesa dal macellaio. La cittadina di Sare è uno dei rari comuni che ha conservato questo gioco senza interruzione dal periodo napoleonico. Fino a 1914, il gioco si praticava due volte l’anno durante le feste patronali (seconda domenica di settembre e giorno di natività della vergine), nel quartiere Ihalar per le feste di Santa Caterina (che duravano tre giorni) poi nel quartiere d’Istilarte e in quello di Añimainea. Perché oggi l’anatra si è sostituita all’oca? Per una ragione molto semplice: Il gioco dell’oca con un’anatra è più conveniente di quello con un’oca; è solo una questione economica. Seriamente, avete visto il prezzo di un’oca? Se venite un giorno nei Paesi Baschi non mancate le nostre feste perché non abbiamo soltanto il gioco dell’oca per divertirsi 😉