Coronavirus: Litte Bighorn!

La psicosi generata dall’epidemia di coronavirus raggiunge le vette più alte delle colline americane e si può misurarla con la propagazione sul territorio, alla velocità di una pallottola di Winchester, di un’altra epidemia, quella dell’uso sproporzionato della parola “cluster” che nessun francese conosceva ancora due giorni fa. Non potete guardare un telegiornale – oppure sentire un esperto mediatico di tutto e di niente – senza la sparatoria più della parola coronavirus, della parola “cluster” almeno 30 volte al minuto in un tentativo disperato dell’esperto o del giornalista di superare la cadenza di tiro di una vecchia mitragliatrice Gatling. Domani, partirò per Roma e, ieri, un amico ha tentato di dissuadermi dicendomi che l’Italia è uno dei paesi più pericolosi al mondo in quel momento e che al mio ritorno rischio di finire in un “cluster” o peggio. Tranquillo, ho tentato di rassicurarlo, sarò prudente come un sioux e non farò la fine del generale americano. Lui, mi ha guardato senza capire tipo: Povero uomo l’abbiamo già perso! Poi mi ha sospirato con la sua faccia da funerale: Addio. 🙂 🙂 🙂 🙂 🙂

In cui l’autore vi racconta la storia di uno scandaloso dipinto di Gustave Courbet che non vedrete mai!

Ah Gustave Courbet! Il grosso Courbet, il pantagruelico Courbet. Il massacratore di tutti gli ipocriti,  bigotti, moralizzatori da strapazzo e benpensanti. Courbet, il vanitoso, il chiassoso, il burlone; il tizio che ce l’aveva con tutti i “pisciafreddo” di Francia. Courbet lo scandaloso, l’assettato di gloria, il pittore pronto a tutto per prendere a pedate il pubblico bovino della pittura. Courbet, il generoso, il rosso, il pittore naturalista, l’anticlericale, il pittore degli zoccoli dei contadini, il socialista…

Stampa del Ritorno dalla Conferenza, dipinto di Gustave Courbet distrutto nei primi anni del XX secolo.

Corre l’anno 1862. Courbet ha un piano segreto, l’idea di un nuovo soggetto, di una nuova composizione che dovrebbe fare di lui l’epicentro di un ennesimo scandalo dalle proporzioni monumentali. Parigi deprime, Courbet è scomparso e senza il tonitruante nativo di Ornans e il putiferio che scatta ognuno dei suoi dipinti socialisti, senza i suoi libelli, senza la sua persona stessa che splende come un astro, Parigi cade in una noia mortale; anche la stampa reazionaria che passa il suo tempo a denigrarlo non vende più niente e lo rimpiange. Mentre tutto Parigi si chiede che fine ha fatto l’artista, Courbet, lui, se la spassa in provincia, a Saintes, al castello di Rochemont dal suo amico e mecenate, Étienne Baudry. Courbet ha bisogno di discrezione per dipingere la tela che dovrebbe scattare il più grande scandalo al Salon del 1863. Che Courbet abbia fomentato e preparato in segreto questa carica anticlericale lo sappiamo dalla sua corrispondenza dove lui gode già in anticipo della buffoneria: “lavoro qui perché non voglio nessuna indiscrezione, conosco Parigi. Arriverò con il dipinto già pronto. Lo presenterò al Salon. Come la gente urlerà. Ah! Ah! Ah! Che scandalo, ragazzi, che scandalo!” Courbet svela che il dipinto sarà “critico” e “comico” tanto che sarà il più grottesco di tutta la storia della pittura e che, d’altronde, solo a raccontarne il soggetto agli abitanti di Saintes, loro crepano dal ridere. Ovviamente Courbet vive in un periodo dove “le forbici d’Anastasia” (la censura in francese) tagliano senza tregua, e diciamo che lo scopo di Courbet è doppio: misurare le limiti della sua libertà artistica e, diciamolo anche, farsi un sacco di soldi con il dipinto. Ma torniamo a Courbet che prolunga il suo soggiorno a Saintes tanto la città e la regione gli piace. Courbet dipinge la campagna di Saintes, il fiume Charente, fa ritratti e nudi delle sue amanti occasionali e gode della buona tavola di Baudry. Courbet lavora anche al suo dipinto che deve essere presentato al Salon del 1863 e che si chiamerà: Ritorno dalla Conferenza. Courbet non cede alla facilità con un tema erotico come i suoi colleghi, il pittore ha scelto di dipingere una scena anticlericale per mettere i burloni nel suo campo. Il dipinto si spiega da solo: sulla strada di Ornans, al ritorno dalla conferenza ecclesiastica del lunedì, quegli ipocriti di curati del decanato, che predicano, ogni giorno, la sobrietà e la temperanza, sono ubriachi fradici e sono presi in giro dai parrocchiani che si dicono che i tizi, loro, non bevono solo vino di messa. Nell’albero, in una nicchia, una madonnina osserva la scena. Courbet non vuole commettere il dipinto dal suo mecenate e fa una cosa divertente che mostra come Courbet è di una natura scherzosa. Dunque il pittore chiede al direttore delle scuderie imperiali di Saintes, una stanza per dipingere il suo quadro che fa dieci piedi (l’equivalente in grandezza dei suoi capolavori più conosciuti Funerale a Ornans e L’atelier del pittore). Il direttore accetta, pensate, Courbet, il pittore è alla vetta della sua carriera. E Courbet comincia a lavorare al suo dipinto anticlericale nella tana dell’imperatore dei bigotti, Napoleone III detto il piccolo. Che buffonata. Poi, viene un dubbio al direttore che chiede di vedere la bozza del dipinto e si mette a supplicare Courbet di portare via il quadro perché non si tratta precisamente di una parata di cavalli. Courbet non ha difficoltà a trovare una nuova casa visto che Saintes è un focolaio dell’anticlericalismo in Francia. Dunque il quadro è traslocato di notte dal vecchio Faure, il nocchiere del Porto-Berteau, che affitta una camera a Courbet al primo piano della sua casa. Courbet è un inquilino che fa delle strane domande. Per esempio, lui chiede al vecchio Faure, un abito talare e soprattutto un asino grigio da sistemare nella camera. Immaginate un po’ l’impresa per fare salire l’asino al primo piano! Comunque sia Courbet si mette al lavoro e Ritorno dalla Conferenza è presentato al Salon del 1863 e rispedito subito a Courbet per oltraggio alla morale religiosa, poi respinto ugualmente dalla giuria del Salon dei Rifiutati. Courbet è furioso e minaccia di dipingere Il Coucher della Conferenza (coucher ha un doppio senso in francese e qui si tratta più della scopata dei curati che del tramonto sulla Conferenza). Courbet è “furioso” anche per un’altra ragione, un altro pittore ha presentato un dipinto che supera in scandalo tutto quello che ha fatto Courbet finora. Pensate questo famoso anno 1863, è l’anno dove Edouard Manet presenta al Salon: La Colazione sull’erba. Un terremoto questo dipinto. Non pensate che Courbet si lascia abbattere dalle sorti. Ritorno dalla conferenza è esposto, via Hautefeuille, nel suo atelier dove le porte sono spalancate al publico. I parigini affluiscono per vedere il dipinto scomunicato. I partigiani di Courbet e i suoi nemici, quelli che difendono il dipinto tipo Proudhon che dichiara scherzosamente: ” l’inevitabile reazione della natura sull’ideale”; e quelli che mettono il dipinto alla gogna e promettono a Courbet l’inferno. In mezzo a tutto questo circo e queste liti, il grosso Courbet che tiene discorsi sediziosi senza dimenticare di agitare gioiosamente, come un semaforo, i mazzi di foto che lui ha fatto fare del dipinto per venderle. Ora, sono passati alcuni anni e siamo nel 1868. Il Ritorno dalla Conferenza è esposto in Belgio al Salon di Gand con una dozzina di opere di cui due libelli anticlericali di Courbet: La morte di Jeannot a Ornans e Curati. in giro. Courbet è un maestro della pubblicità quando si tratta di vantare la sua persona oppure le sue opere. Ritorno dalla Conferenza e i libelli sono esposti in una sala particolare dove la gente deve chiedere un’autorizzazione speciale per entrare. La stampa reazionaria si strangola di indignazione e più essa si strangola più la gente vuole vedere il dipinto di Courbet e comprare le foto del dipinto. L’artista vince la medaglia d’oro del Salon, ma non riesce a vendere il dipinto. Nel 1881, il dipinto riappare, dopo la morte dell’artista, in una vendita dei dipinti di Courbet all’hotel Drouot dove il quadro è comprato da un anonimo. Venti anni dopo, l’opera si ritrova dal gallerista, Georges Petit. Un giorno, tra il 1906 e il 1912, un tizio si presenta da Georges Petit e si indegna davanti al dipinto dicendo che è una cosa infame, empia, scandalosa, ma lui comunque convince Petit di vendergli il dipinto. Più tardi, Petit riceve una lettera del tizio che dichiara di essere un ultracattolico che avrebbe acquistato il dipinto solo per il piacere di potere distruggerlo. Ritorno dalla Conferenza non è mai più riapparso e ne rimane solo qualche foto e qualche stampa…

Carne parigina cotta in pentola oppure fritta in padella?

Correva l’estate 1911, l’estate fu tanto rovente che più di 40 000 persone ne morirono in Francia. La temperatura  superò 21 volte trenta gradi di cui 13 volte per il solo mese d’agosto con un massimo di 37,5 gradi il 9 agosto. Fece tanto caldo che quei poveri parigini con i loro cervelli tutto abbrustoliti, invece di scendere nelle catacombe, si rifugiarono sui tetti di Parigi per dormire. Insomma lasciarono il caldo atroce dei loro appartamenti trasformati in pentole a pressione per friggere nelle padelle che erano diventati i tetti di Parigi. Oggi, il record di caldo dovrebbe essere battuto a Parigi con un 42 gradi all’ombra. Allora, parigini cotti in pentola o fritti in padella? 😉

Viaggio nelle isole del mare degli Stretti, di là dalla fine delle Terre! Quarta parte.

Lanterna dei morti di Saint-Pierre d’Oléron.

Dal X secolo fino al secolo dei Lumi. Le lanterne dei trapassati hanno mantenuto il fuoco sacro nei camposanti francesi. Sono tante diverse tra esse queste lanterne dei trapassati che la gente ci vedeva antichi monumenti druidici (anche se i galli non costruivano in pietra), romani, oppure mauri; apparecchi di segnalazione, fari per guidare le navi sul mare oppure i viaggiatori smarriti nelle campagne. E no. Le lanterne dei trapassati hanno tutte come punto in comune di vedersi da lontano, ma non sono tutte queste cose. Erano edifici di fede cristiana. Il fanale acceso in cima aveva uno scopo ovviamente – che è stato descritto da sant’Agostino da qualche parte, credo – quello di ammonire i vivi, di pregare per i morti e permettere ai morti che erano seppelliti ai piedi della lanterna e nei dintorni di ricevere il più grande numero possibile di preghiere. Bambino, mia nonna mi diceva che una volta morta, lei verrebbe mi “solleticare i piedi” se non fossi onesto e forse lo sta facendo visto che ho un piede….Va bene, non vado a raccontarvi la mia vita. Suppongo sia stata la stessa cosa per sant’Agostino e che lui aveva paura che la nonna tornasse per sistemarlo, di cui questo rispetto che dobbiamo ai trapassati. Dunque era il ruolo di quelle lanterne dei trapassati: onorare i morti per calmare la loro rabbia di essere morti, ricordarli alle preghiere dei vivi, affermare l’immortalità dell’anima, addormentare il terrore che la gente aveva dei fantasmi e allontanarli. Era tanto presente questa paura dei fantasmi nel Medioevo che, nelle città, c’erano persone che facevano il mestiere di “clocheteur” cioè che percorrevano le strade di notte agitando un piccolo campanile per risvegliare la gente: “svegliatevi, voi che dormite, Pregate Dio per i trapassati….” I “clocheteur” avevano la stessa funzione delle lanterne dei trapassati. I fanali di quei templi di pietra erano accesi tutte le notti e spesso anche notte e giorno. Ogni due novembre, tutto il paese si ammucchiava nella nebbia o sotto la pioggia intorno alla sua lanterna dei trapassati per sentire una messa funebre. Quando c’era un morto, la lanterna doveva rimanere accesa fino alla sua messa in terra. Le lanterne dei trapassati ci raccontano riti di un vecchio mondo ormai dimenticato. Sono abbandonate o diventate semplici croci nei camposanti o croci perse nei campi. Le parti che ospitavano i fanali sono crollate. Vecchie cose del Medioevo. Le lanterne dei trapassati sono trapassate. Ne resta soltanto una in Francia, una discendente laica, di cui la luce è accesa in modo perenne: è l’Arco di Trionfo a Parigi con sotto la Tomba del Milite ignoto…. La campanella della scuola costruita sopra l’antico camposanto, a due passi dalla lanterna dei trapassati, si mette a suonare. Uno stormo di alunni ne esce urlando. In un attimo, i gridi si disperdono nelle antiche vie della città. Il silenzio torna sotto i platani….

I draghi d’acqua del giardino botanico di Bordeaux.

Nel fondo di uno dei bacini del giardino botanico di La Bastide, in mezzo ai girini e alle rane, qualcuno ha notato delle strane bestiole nascoste tra le piante acquatiche. Tutti i sapienti di Bordeaux sono stati convocati e tutti di interrogarsi intorno al bacino: Ma cosa sono queste bestiole che nessuno ha mai visto? Una nuova specie? Mistero totale. Il buio completo. Poi un tizio qualunque che passeggiava nel giardino si è fermato davanti al bacino e, incuriosito, davanti alla dotta assemblea riunita per l’ennesima volta, ha guardato le bestiole e ha scoppiato dal ridere. Sono degli axolotl, egli ha affermato, basta andare a Jardiland (l’equivalente francese di Viridea) per trovarne, sono le bestiole alla moda in questo momento. Un cretino le avrà comprate poi buttate nel bacino del giardino botanico. Diciamo che se comprate un axolotl, la vita di un sasso vi sembrerà  più palpitante e dunque il cretino si sarà stanco di aver le soporifere bestiole a casa e le avrà buttate nel bacino. Tutto qui. E tutti i sapienti di guardare il tizio con la bocca aperta e gli occhi spalancati davanti a questa rivelazione: Allora il mitico axolotl, la bestiola che possiede delle capacità fuori dal comune e che si pensava estinta, si venderebbe nei garden center? Straordinario. Ora vi racconto la storia dell’axolotl. Non è difficile di indovinare che l’axolotl è messicano con questo nome tipicamente azteco. Più precisamente l’axolotl è originario dalle acque fredde dei laghi Xochimilco e Chalco non lontano dalla città del Messico. E dunque axolotl deriverebbe dal nome di un Dio messicano chiamato “Xolotl” che secondo la leggenda si cambierebbe in drago d’acqua per sfuggire ai suo nemici. Probabilmente un tipo di ironia azteca visto il lato completamente amorfo delle bestiole che popolano le acque del bacino del giardino botanico. Notate che i naturalisti che sono conosciuti per dare nomi latini di fantasia a tutto, l’hanno chiamato anche “Gyrinus Edulis” (girino commestibile) osservando probabilmente gli aztechi ingozzare gli axolotl allo spiedo dalla mattina alla sera. Parlate di un drago d’acqua che sfugge ai suoi nemici! Dunque fino all’inizio del XIX secolo, axolotl, la leccornia azteca, è sconosciuta in Europa. Nel 1803, Alexander von Humboldt e Aimé Bonpland viaggiano in America latina e ne riportano le loro famose Raccolte di osservazioni di zoologia e d’anatomia comparata in cui Georges Cuvier del museo nazionale di storia naturale descrive per la prima volta gli axolotl. Humboldt, Bonpland e Cuvier ci dicono che gli axolotl hanno quattro zampe separate in quattro dita, la bestiola acquatica di colore bianco, giallo oppure nero e fulvo, misura circa 15 centimetri ed è dotata di polmoni ma anche di branchie. Inoltre l’axolotl assomiglia come due gocce d’acqua alla larva di una salamandra. Dunque sono i primi dati sugli esemplari di axolotl descritti e inviati da Humboldt al museo di nazionale di storia naturale. Passano alcuni anni – una sessantina – e ci ritroviamo negli anni 1860 dove una trentina di axolotl sono di nuovo inviati in Francia dal Messico al professore Auguste Duméril, ideatore e responsabile del vivarium del Giardino delle piante di Parigi. Figuratevi che quegli axolotl sono gli antenati di tutti gli axolotl che trovate in tutti i garden center di Francia. Dunque Duméril si mette a studiare le bestiole e ci vuole coraggio tanto gli axolotl hanno una vita vegetativa. E, dopo un anno, succede qualcosa di davvero incredibile, stupefacente, allucinante. Uno degli esemplari di axolotl si mette a deporre uova. Finora, si pensava che l’axolotl era una larva di una specie di salamandra americana, un volgare  girino. Ma come fa un girino per riprodursi? È una cosa inconcepibile. Auguste Duméril non ha tempo di fare una crisi cardiaca dopo questa prima scoperta che succede già un evento ancora più straordinario se fosse possibile. Un secondo esemplare di axolotl si mette addirittura a cambiare completamente di colore e di forma! L’axolotl perde le branchie e si mette ad assomigliare a un batrace conosciuto sotto il nome di Amblystome. Immaginate il povero Duméril nel suo laboratorio che pensava studiare delle larve di salamandra e che diventa quasi pazzo davanti a questi fenomeni. Se qualcuno avesse detto a Duméril della vita trepidante dell’axolotl, lui avrebbe pensato di essere preso in giro. Eppure, davanti agli occhi di Duméril, lui sta osservando, per la prima volta, il concetto che il biologo Kollmann chiamerà qualche anno dopo: la neotenia (la gioventù prolungata) cioè la capacità di certi animali a conservare delle forme larvali sapendo comunque riprodursi. Ma non è tutto ed è solo l’inizio. Durante altre esperienze, Duméril ha tentato di forzare la metamorfosi dell’axolotl e ha dimostrato che la bestiola  può metamorfosarsi, perdere le branchie e diventare un animale terrestre a patto che l’axolotl sia in buona salute e che le condizioni di vita siano buone. Oppure, anzi, rimanere una larva acquatica tutta la sua vita. Più tardi, i ricercatori hanno fatto altre esperienze e hanno constatato che l’axolotl può rigenerare le sue zampe ferite. Di recente, gli scienziati hanno scoperto che l’axolotl può rigenerare i suoi occhi, la sua colonna vertebrale e anche una parte del suo cervello. L’axolotl è ugualmente molto tollerante per tutto quello che riguarda i trapianti di pelle o di organi interni. Quindi l’axolotl ha un certo successo nel mondo scientifico con i suoi superpoteri. Ecco la storia dell’axolotl. Specie a rischio di estinzione nel suo paese natio per colpa dell’inquinamento e dell’urbanizzazione del lago Xochimilco secondo l’UICN. Leccornia azteca una volta venduta sui mercati. Animale prodotto e studiato in laboratorio per le sue capacità misteriose di rigenerazione e di riproduzione. Animale di moda venduto nei garden center per la sua somiglianza con qualche pokemon. Animale buttato in un bacino del giardino botanico da un cretino. E bene, speriamo che gli axolotl possano vivere in pace in questo bacino senza essere scocciato dagli uomini. Per una volta.

AMOUR

L’Amour prenant un papillon (Cupido gioca con una farfalla). Antoine Denis Chaudet (1763-1810). Museo del Louvre. Parigi.

Questo post è un piccolo aggiornamento del post: Per i francesi l’amore cambia di sesso al plurale! 

L’Amour trattiene una farfalla e la avvicina a una rosa. La farfalla simboleggia l’anima e la rosa il piacere. L’Amour sveglia l’anima ai sentimenti amorosi grazie al profumo della rosa. La scena porta lo spettatore a una riflessione del tormento dell’anima di fronte alle pene e ai piaceri dell’amore, che sono raffigurati sulla base della statua. Se avete l’occasione di andare al Louvre, tra due selfie con la mia vecchia zia,  Amour si trova a piano terra nell’ala Richelieu.

Per i francesi l’amore cambia di sesso al plurale!

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L’Amour prenant un papillon (Cupido gioca con una farfalla). Antoine Denis Chaudet (1763-1810). Museo del Louvre. Parigi

Amore si dice amour in francese ed è maschile al singolare. Si parlerà come in italiano di un amore appassionato, ardente, disperato, corrisposto…ecc…ecc. Qualche volta se leggete della poesia in francese, potete incontrare amour al femminile al singolare: un’amore bella, un’amore curiosa. In questo caso rarissimo si tratta semplicemente di una licenza poetica. Invece quello che non è una licenza poetica è che la parola amour da maschile al singolare diventa femminile al plurale. C’è un esempio famoso in una poesia di Baudelaire, Moesta e Errabonda, dove il poeta si interroga a proposito del verde paradiso degli amori infantili? Ossia in francese “le vert paradis des “amours enfantines” (femminile plurale). In questo caso non è assolutamente una licenza poetica, è la regola. In francese, un amore appassionato diventa delle amori appassionate (un amour passionné/des amours passionnées), un amore nuovo diventa delle amori nuove (un amour nouveau/des amours nouvelles); un amore corrisposto diventa delle amori corrisposte (un amour partagé/des amours partagées)…ecc…ecc. Ma questa regola dell’amour che è maschile al singolare e che diventa femminile al plurale soffre di un’eccezione? Sì, c’è un caso particolare dove amour è sempre maschile al plurale quando Amour designa la raffigurazione del Dio dell’amore nelle arti. Un amour (maschile singolare)/ Des amours (maschile plurale). Ovviamente un putto o un amorino non cambia di sesso se un pittore, un disegnatore oppure uno scultore ne aggiunge più di uno nella sua opera. C’è un limite a tutto anche per la lingua francese! 😉

 

Bordeaux: Velieri sulla Luna!

 

Velieri nel porto di Bordeaux. Corot Jean-Baptiste Camille (1796-1875). Museo del Louvre. Parigi.

Cari lettori e care lettrici, cliccate la pagina del quaderno di schizzi di Camille Corot per imbarcare a bordo del Marco Polo e contemplare velieri sulla Luna.

Antonietta-Giovanna, la bordolese che caccia via i temporali!

Médoc. Se vi chiedete chi è Antonietta-Giovanna, sappiate che è la più piccola e la più antica delle tre campane del campanile a vela della chiesa di Notre-Dame de Benon a Saint-Laurent de Médoc, a due passi dalla fontana della fata dai capelli rossi di cui vi ho parlato l’altro giorno. Antonietta-Giovanna, ragazza di 219 anni, è stata fusa dallo stesso artigiano bordolese che fuse sua sorella maggiore: La Grosse-Cloche di Bordeaux. Questa campana, Antonietta-Giovanna, è davvero particolare perché le viene attribuita una virtù primordiale, essenziale, in un paese vitivinicolo come quello di Bordeaux, un potere magico, quello di cacciare i temporali e di allontanare le tempeste autunnali che arrivano dal Golfo di Biscaglia al momento della vendemmia. Oggi, si usano i cannoni antigrandine per tentare di salvare le raccolte, una volta, i bordolesi facevano suonare campane magiche come Antonietta-Giovanna per fare lo stesso lavoro. Fino alla metà del XVIII secolo, era un’obbligazione legale per gli abitanti e i sagrestani di fare suonare “il temporale”. Poi qualcuno si è accorto che i fulmini avevano la spiacevole tendenza a distruggere, in primo luogo, i campanili essendo attirati dalle loro croci in ferro in vetta e dunque questa usanza kamikaze è stata proibita. Questa proibizione e l’invenzione del parafulmine hanno messo fine alla strage dei suonatori di campane. La credenza degli antichi bordolesi era che il diavolo (e prima di lui il Dio del tuono perché è un’usanza antichissima di fare rumore per allontanare il brutto tempo) era l’autore dei temporali e che lui non sopportava il suono di certe campane come quello di Antonietta-Giovanna e scappava via con le sue maledette nuvole nere. Talvolta gli exploit venivano incisi addirittura nel bronzo delle campane magiche. La difficoltà per i bordolesi era di procurarsi queste campane magiche perché un campanile con una banale campana di bronzo non serviva proprio a niente. C’è un episodio famoso nel Gargantua di François Rabelais, al capitolo XIX, dove Giannotto de Bragmardo tenta di convincere Gargantua di restituire le campane di Notre-Dame de Parigi che lui ha derubato. Uno degli argomenti è che loro hanno bisogno delle loro campane magiche che cacciano i temporali e garantiscono loro il sugo di vigna; e d’altronde hanno già rifiutato un bel sacco di soldi offerto dalla città di Bordeaux per le loro campane:

“Ehen, hen, hen,! Mna, dies signore, Mna dies! Et
vobis, signore! Sarebbe un gran bel fatto che ci rendeste
le nostre campane, poiché ne abbiamo molto bisogno.
Hen, hen, hasc,! Ne abbiamo rifiutato una volta del bravo
danaro sonante dai cittadini di Londra, in Cahors, e
altresì da quelli di Bordeaux, nella Brie, i quali volevano
comprarle per la sostantifica qualità della complessione
elementare che è intronificata nella terrestrità della
loro natura quidditativa, per estraniare gli aloni e i
turbini dalle nostre vigne, veramente non nostre, ma
poco ci manca. Poiché se perdiamo il sugo di vigna, tutto
perdiamo; sentimento e legge.
“Se voi ce le restituite per mia richiesta io ci guadagnerò
dieci spanne di salciccia e un buon paio di brache
che saranno una grazia di Dio per le mie gambe, se
no, non mi terranno la promessa. Oh, per Dio, Domine,
un paio di brache non è mica un pugno in un occhio, et
vir sapiens non abhorrebit eam. Ah, ah, non è mica dato
a tutti avere un paio di brache. Io lo so bene per esperienza
personale, pensate, Domine: son diciotto giomi
che sto a rugumare questa bella arringa: Reddite quae
sunt Caesaris Caesari, et quae sunt Dei Deo. Ibi iacet
lepus. Date a Cesare quel ch’è di Cesare e date a Dio
quel ch’è di Dio. Questo è l’importante.

 

Il campanile a vela della chiesa di Notre-Dame de Benon. la campana Antonietta-Giovanna è quella di destra. La chiesa faceva parte di una commenda ospitaliera fondata nel 1154 per soccorrere i pellegrini di Compostela che si prendevano la malaria attraversando il Médoc.

Questo edificio è la prima chiesa, quella del 1154. Si trattava di una cappella dedicata a Santa Caterina d’Alessandria, oggi è la Sagrestia. Probabilmente c’era già un campanile con la sua campana magica sopra la volta a botte della cappella. Non c’è più traccia dell’ospedale.

Inizio del XIII secolo. Si affianca a Sud una seconda chiesa alla prima che era troppo esigua. Piace la semplicità di queste chiese fortificate.

La scala del campanile. Notate che potete tirare la corda di Antonietta-Giovanna dai piedi della scala. La campana è stata riparata bene tre volte durante la sua storia e l’ultima volta nel 1995. Prova che Antonietta-Giovanna viene ancora oggi usata per cacciare i temporali da qualche viticoltore sfida la morte! 😉

 

 

 

Il bordolese che scoprì che il Rosso di Bordeaux non era del vino!

Pane alla farina Rouge de Bordeaux comprato dal mio panettiere.

Parigi 2016. A Parigi, il pane fa veramente schifo, mi dico, mentre entro per l’ennesima volta, disperato, in una panetteria parigina. Davanti a me, una cliente con accento parigino che chiede una baguette: “non troppo cotta, eh!” E io ho subito voglia di scappare. Anche a Bordeaux, per dire la verità, ci sono tanti bordolesi che chiedono la baguette: “non troppo cotta, eh!” Il cancro bianco come lo chiama il mio panettiere aggiungendo che, a questo ritmo di diffusione, verrà un giorno in cui lui si accontenterà di vendere direttamente delle confezioni di farina. Il panettiere parigino sorride mentre il mio panettiere guascone, che non è un tizio a fare concessioni oppure a rassegnarsi, avrebbe cacciato via la signora:  “Siamo una panetteria qui e io non faccio il mugnaio!” Quasi credo di sentire le sue parole. Il panettiere parigino interrompe la mia fantasticheria: Buongiorno! E per lei, signore, cosa sarà? Rimpiango di essere entrato. Ma cosa fare adesso in mezzo a tutto questo pane bianco? Ancora una volta, mi sono lasciato ingannare dalla vetrina dove c’era scritto: Panetteria artigianale. Va bene, al diavolo tutto e anche la mia educazione! Mi lancio che fa una settimana che non ho mangiato del pane che non sia una schifezza industriale: Ma lei non fa del pane che sia cotto? Di quello con la crosta caramellata quasi bruciata come piace a me? Con la mollica bene alveolata che sa di lievito? Lui sorride e tira da sotto il banco un cesto pieno di baguette. E io che ero sull’orlo della crisi di nervi, mi calmo subito vedendo il pane che ha il colore perfetto per me. Lui, sempre senza dire una parola, prende una baguette e me la rompe in due con le mani, poi me ne tende una metà. Non me lo faccio dire due volte, affamato di pane come sono, e mordo all’estremità, il quignon come si dice a Bordeaux, il tozzo dei Re. In vita mia, non ho mangiato di pane cosi buono gli dico e chiedo tutto balbettante: Ma diavolo cos’è questo fottuto pane? E lui di rispondere, sempre sorridente: Rosso di Bordeaux. E io che ero scemo all’epoca – e che lo sono ancora oggi – di dire: “Ah lei ha messo del vino di Bordeaux nell’impasto al posto dell’acqua.” E lui, il panettiere parigino sempre sorridente ed educatissimo: “No, vuole dire che ho fatto le baguette con un grano che si chiama Rosso di Bordeaux. Va bene al diavolo tutto! Ho già lasciato la mia educazione, posso anche confessare la mia più completa ignoranza! Lei mi prenderà in giro, signore, ma io che sono di Bordeaux, non ho mai sentito parlare di un grano chiamato Rosso di Bordeaux! Ma cos’è questa fottuta diavoleria? Ma lui non ride di me e non sembra affatto sorpreso dalla mia ignoranza tutta bordolese. Poi mi svela il perché della cosa: “Il grano Rosso di Bordeaux è un grano antichissimo originario dalla Guascogna,  particolarmente apprezzato nella sua città di Bordeaux dove, una volta, i panettieri bordolesi usavano quasi esclusivamente questa farina per fare i loro pani. Rosso fa riferimento al colore delle spighe di questo grano. Ovviamente, i panettieri di Bordeaux non lo chiamavano grano Rosso di Bordeaux. Sono panettieri del dipartimento della Seine et Marne (nella regione parigina) che si erano rifugiati a Bordeaux durante la guerra franco-prussiana del 1870 che l’hanno chiamato così. Loro hanno trovato il pane fatto a Bordeaux tanto buono che quando sono tornati a Parigi, hanno portato con loro qualche sacco di sementi. È così che si è diffuso il grano Rosso di Bordeaux nei dintorni di Parigi. Nel frattempo a Bordeaux, il grano Rosso è stato sostituito da altre varietà di grano più renditrici e la stessa cosa è avvenuta anche nel Bacino parigino più tardi. Fino a fare cadere il grano Rosso di Bordeaux nel dimenticatoio. Poi alla fine degli anni 1970, una coppia che lavorava in agricoltura biologica sente parlare del grano Rosso di Bordeaux che è a rischio di estinzione. E il marito e la moglie si mettono a muovere cielo e terra per trovare delle sementi. E invece niente, sembra che il grano Rosso di Bordeaux sia già estinto. Poi il miracolo nella soffitta di un contadino di Blois dove trovano una decina di chili di sementi di grano. Era l’inizio della Riconquista del grano Rosso di Bordeaux grazie a una manciata di contadini, mugnai  e panettieri….” L’altro giorno, entro nella mia panetteria, quella del guascone che caccia fuori le signore che chiedono del pane bianco. Lui mi dice sottovoce come per svelarmi un segreto: “Ho una novità, un nuovo pane fatto grazie al mio mugnaio che conosce un contadino che coltiva delle varietà antiche di grano” E lui mi tira da sotto il banco un bellissimo pane. E mentre lui mi racconta, entusiasta, del suo nuovo pane, sorrido pensando che non troverei più il Rosso di Bordeaux solo a Parigi, ma anche nella panetteria del mio quartiere. Dopo un lungo viaggio, il Rosso di Bordeaux è tornato a casa!