Bacino di Arcachon e Poesia: Il canto della Leyre.

Ne vale la pena di fare una passeggiata lungo la Leyre, di subire gli assalti delle tigri, delle zecche e dei serpenti? Credetemi che tutto questo fastidio si dimentica presto davanti allo spettacolo delle centinaia di damigelle blu che danzano sopra le acque del fiume e che sembrano diamanti quando il sole le attraversa. Oggi vi propongo una traduzione grossolana e approssimativa fatta da me – dove purtroppo si perdono le rime, ma accetto tutti i suggerimenti per migliorare il mio testo!  – della prima parte di una poesia, Il canto della Leyre (pronunciate Leir), di Emilien Barreyre. Nato ad Arès nel 1883, Barreyre è il poeta del mare e della vita vissuta dai marinai del Bacino di Arcachon. Pescatore e figlio di un pescatore. Nessuno ha saputo come lui cantare l’oceano guascone, le sue sponde, la sua gente. Spinto da un povertà estrema, Barreyre lascerà il il suo caro Bacino di Arcachon nel 1930 e si stabilirà nella periferia parigina e, dopo alcuni anni a fare l’operaio la giornata e a scrivere poesie la notte, ci morirà nel 1944, senza mai aver potuto tornare nella sua terra natia. Notate che gli scatti, fatti durante la mia passeggiata, sono quelli di un piccolo affluente della Leyre.

Òh ! que lo siagle es lunh que te vit sorgilhar,

Ò cara e encatadora Lèira !

Dijà, lavetz, òh ! quau sablèira,

A vint lègas arrèir de nòsta granda mar !

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Oh! che il secolo che ti vide scaturire è lontano,

O cara e incantevole Leyre!

Già, allora, o! quanta sabbia,

A venti leghe a ridosso del nostro Oceano! 

Per aver au sorelh ta plaça,

Ailas ! avès causit, tu, lo tan pichon riu,

Aqueth tan gran terraire on ren qu’un ombra viu :

La de la nublada que passa.

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Per aver il tuo posto al sole,

Ahimè! avevi scelto, tu, il così piccolo fiume,

Quel tanto gran Paese dove la sola ombra vivente:

È quella della nuvola che passa.  

Òh ! lo sòrt tristejant de néisher en lòcs atau,

On autanlèu qu’èra  cairada,

La mei gran pluja èra eschompada,

Per lo sable assetat d’aqueth campàs mortau.

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Oh! la triste sorte di nascere in tali luoghi,

Dove appena era caduta,

la più grande pioggia era assorbita,

Per la sabbia assetata di questa landa mortale.

Ò riu nanòt, qu’èras a plànher,

Tu qu’èras qu’un ploric en país vasconian,

Lavetz que la Garona au front dau Vau d’Aran

Riulèva emb brut, e pas de canha.

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O fiume nano, eri a compiangere,

Tu che eri una lacrima in paese guascone,

Mentre la Garonna al fronte della val d’Aran

Correva rumorosa, e senza sudare.

Avès pertant com era un gran rèule a jogar :

Mès tau rèule coma lo tèner,

Tu, tant estreita, que shens pena,

Un chancat lanusquet  t’auré poscut gamat.

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Avevi pure come essa un grande ruolo da giocare:

Però quel ruolo come lo giocare,

Tu, così stretta, che senza sforzo, 

Un landese su suoi trampoli ti avrebbe potuto scavalcare.

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Fine prima parte

 

Pietà per gli sciacalli!

Oggi, vi propongo un antico racconto berbero in cui lo sciacallo – come al solito – si fa raggirare da un riccio. Lo sciacallo nei racconti berberi è l’antenato del Willy Coyote americano mentre il riccio è l’antenato di Beep Beep. 😉

Una volta, il riccio e lo sciacallo fecero amicizia. Il primo disse all’altro: ” quante astuzie hai?” – “Ne ho cento e la metà d’una”, rispose lo sciacallo e gli chiese a sua volta: “Quante astuzie hai?” – “La metà d’una.” camminarono passeggiando per la strada finché arrivarono, in mezzo alla notte, a un douar. Ci trovarono un silo, scesero entrambi dentro e mangiarono grano finché furono sazi. Il riccio disse allo sciacallo: “Chinati per che possa salire sulla tua testa e guardare.” Lo sciacallo si chinò, il riccio salì sulla sia schiena, saltò e ricadde fuori dall’apertura del silo, lasciando lo sciacallo dentro. Il riccio gli disse: “Salvati come potrai. Vedi, io che ho solo la metà di un’astuzia ce l’ho fatta; Tu che hai cento astuzie e la metà d’una, non puoi cavarti dal mezzo del silo.

 

 

Médoc: Poi riprendere fiato.

Quello che faccio, amico mio,

Quando la mia testa barcolla

Corro i cammini,

I prati orlati di siepi.

Nel fondo dei fossi,

Dove mi lascio cadere,

Stendo la mia stanchezza.

Se il caldo mi estenua,

Vado verso il mare,

Sulle dune che verdeggiano,

Posso anche sedermi

E poi, riprendere fiato,

Giusto prima di andare a vedere,

Se l’acqua è calda o fredda,

Appena quella mi piace,

Mi scrollo dentro.

Il sole fa presto,

Ad asciugarmi.

Nei grandi pini che cantano,

Quando il vento di mare

Scuote i rami,

Mi piace passeggiare,

Vedere i vortici 

Appiattire le felci,

Subito rinvigorite.

Me ne torno a casa

Slittando sugli aghi dei pini.

Sono in armonia

Con tutto quello che i miei occhi

Non avevano visto prima!

I grilli che saltano

Sull’erba secca,

Le tortore affatto selvaticche,

Le ghiandaie che gridano male,

Le lucertole che scappano

Appena arriva il gatto.

Non mi ricordo più

Chi un giorno mi aveva detto:

Quando senti che non va,

Vattene nella natura,

Guarda, ascolta, pensa;

È un medico

Che sa sempre guarire! 

(Poesia tratta dal libro: Cabirolar los mots)

Spesso mi è chiesto cosa c’è da fare all’Oceano e nel Médoc. Non so cosa fanno gli italiani di solito al mare oppure alla campagna. Quello che so e che io ci vado per riprendere fiato.

 

 

Frammento di un Notturno parigino di Paul Verlaine.

 

…Toi, Seine, tu n’as rien. Deux quais, et voilà tout,
Deux quais crasseux, semés de l’un à l’autre bout
D’affreux bouquins moisis et d’une foule insigne
Qui fait dans l’eau des ronds et qui pêche à la ligne.
Oui, mais quand vient le soir, raréfiant enfin
Les passants alourdis de sommeil ou de faim,
Et que le couchant met au ciel des taches rouges,
Qu’il fait bon aux rêveurs descendre de leurs bouges
Et, s’accoudant au pont de la Cité, devant
Notre-Dame, songer, cœur et cheveux au vent !
Les nuages, chassés par la brise nocturne,
Courent, cuivreux et roux, dans l’azur taciturne.
Sur la tête d’un roi du portail, le soleil,
Au moment de mourir, pose un baiser vermeil.
L’Hirondelle s’enfuit à l’approche de l’ombre.
Et l’on voit voleter la chauve-souris sombre.
Tout bruit s’apaise autour. À peine un vague son
Dit que la ville est là qui chante sa chanson…

SCOPAMI!

Vado da mia madre. Al momento di partire, lei mi dà la sua abituale lista di libri ad andare a cercare alla biblioteca comunale di Bordeaux visto che ci passo davanti ogni giorno e che sono abbastanza giovane per fare la spola con la tonnellata di libri che lei si legge ogni settimana. Va bene mamma, sospiro, dammi la tua lista, me ne occupo nella settimana. Qualche giorno dopo, sbircio la lista e mi crepo gli occhi a tentare di decifrare la scrittura a zampe di mosca (di gallina in italiano) di questa fottuta donna – notate che non posso lamentarmi troppo perché la mia scrittura è ancora peggio. Dunque figuratevi che nella lista c’è un libro intitolato: Scopami. Leggo la parola due volte, cento volte, ma alla fine c’è sempre scritto: Scopami. Consulto su internet il catalogo della biblioteca di Bordeaux, è niente! La mia ricerca corrisponde a niente. Non c’è un libro con un titolo così triviale. Telefono a mia madre per aver qualche informazione e prenderla un po’ in giro per i suoi gusti tosti in materia di letteratura. Ovviamente lei non risponde, come al solito quando il mio numero compare sul suo telefono. Prendo la decisione, prima di andare alla biblioteca, di telefonare loro per saperne di più su questo libro perché comunque mia madre non sbaglia mai quando si tratta di libri. Dunque mi passano una ragazza che lavora al terzo piano nel reparto letteratura. Lei mi chiede cosa desidero. E cosa le rispondo, cretino come sono? Buongiorno…Scopami! Un silenzio interminabile. Forse lei ha chiamato la polizia e forse loro sono già en route per arrestarmi con quei telefoni moderni che vi spiano a ogni momento della vostra vita. Non so più cosa fare! Forse dovrei riattaccare. Finalmente, sento di nuovo la voce della ragazza e io che ero pronto a presentare le mie scuse per il malinteso, la sento scusarsi perché nel catalogo questo libro non appare e forse se avessi il nome dello scrittore. Tento di decifrare le zampe di mosca di mia madre. Non sono certo, dico: Ile oppure Ilesse, ma la mia ricerca non ha dato niente nel catalogo. Dunque lei mi chiede di sillabare il nome: I.L.E.(S). Lei si mette a ridere francamente perché è un cognome inglese e la parola si pronuncia come qualcosa che assomiglia a ICE di ice-cream. Va bene, l’inglese e io…ma questo fottuto libro l’avete, sì o no? Lei dice di aver un’idea sull’autore e rifa una ricerca sul computer ed è morta dal ridere quando riprende il telefono. Sì, sì, l’abbiamo. Lei può venire. Dunque vado a cercare il libro e non lo guardo nemmeno questo fottuto Scopami che mi dà M… davanti alle sue colleghe che ridono nell’ufficio. Vorrei essere altrove tanto ho l’impressione che tutte queste ragazze mi stanno prendendo in giro. Qualche giorno dopo, porto i libri a mia madre e le racconto di suo fottuto Scopami che mi ha messo tanto in imbarazzo al telefono e davanti a tutto il reparto letteratura della biblioteca. Che scopami? chiede mia madre. Lo sai benissimo! Il tuo fottuto libro di Greg Ilesse! Lei si mette a ridere a crepapelle come M… e le sue colleghe e mi mostra il titolo del coso. E cosa leggo? BRASIER NOIR! (braciere nero) e non BAISEZ MOI (scopami). Oh no! Fottuta donna con la sua scrittura a zampe di mosca! Questa storia non ho finito di sentirla….

Letteratura: Ninfe

Alcune farfalle portano nomi di fate, di fauni, di sante, di eroi oppure di divinità: Marte, Satiro, Andromaca, Vulcano, Apollo, Silvano, Tecla, Venere, Esmeralda, Sfinge. Tutte scompaiono o sono minacciate di estinzione. Quando il mondo si disincanta, la vita se ne va, i dei si ritirano….(tratto da Geografia dell’istante di Sylvain Tesson)