Espressione francese e duna del Pilat: En chier des ronds de chapeau!

Questi “ronds de chapeau” erano cerchi di piombo che si mettevano dentro i cappelli per mantenerne la forma. Pensate un po’ la sofferenza estrema se doveste cagare una moltitudine di quei “ronds de chapeau”! Non c’è bisogno di farvi un disegno! Dunque L’espressione significa soffrire o far soffrire atrocemente. Volete un esempio concreto, cari lettori e care lettrici? Allora, immaginate come ne cagano dei cerchi di cappelli i migliaia di turisti che si recano, ogni giorno, alla Teste de Buch e che sono costretti da un’ordinanza comunale di salire mascherati i 107 metri di altezza della duna del Pilat sotto i quaranta gradi che abbiamo in quest’estate torrida (peggio di quella del 2003!). Ma non sarebbe meglio di chiudere questa fottuta attrazione invece di far cagare dei cerchi di cappelli a tutta questa gente e rischiare un’epidemia di morti per infarto? Un po’ di buon senso, banda di sadici!

Bacino di Arcachon e poesia: Il canto della Leyre. Terza parte.

Terza parte del bellissimo Canto della Leyre del poeta di Arès, Emilien Barreyre. Abbiamo assistito alla nascità della Leyre, poi abbiamo scoperto come la Leyre è diventata un fiume. Ora vediamo se la Leyre riuscirà a raggiungere l’Oceano. Questa poesia è un canto quindi ci saranno altri appuntamenti man mano che  tradurrò l’antica lingua dei nostri nonni in italiano. 

 

Lavetz aurés credut, ò Lèira, que n’avès,

Tot dreit davant o en reviradas,

Qu’a riular quauquas cent braçadas

Per veire la mar granda esparrada a tòs pès.

 

Allora avresti creduto, o Leyre che avevi,

dritto davanti o facendo virate,

Solo a scorrere qualche cento braccia

Per vedere l’Oceano steso ai tuoi piedi

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De v’rai, n’èras pas alunhada ;

Mès, per en chic de temps a-d era te mesclar,

Au lòc d’estar la Lèira, auré falut estar

La Garona en granda pujada.

 

Veramente, non eri tanto allontanata;

Però, per un po’ di tempo a esso mescolarti,

Invece di essere la Leyre, sarebbe dovuta essere

La Garonna in grande straripamento

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Es qu’enlà, davant tu, dau Siroet au Noroet,

Haut de cent pè, long d’una lèga,

E dentejat com una sèga,

Se mastèva, blancós de sable, un gran paret.

 

È che di là, davanti a te, dal vento del Sud a quello del Nord,

Alto di cento piedi, lungo di una lega,

E dentata come una sega,

Si rizzava, biancastro di sabbia, una grande parete.

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D’eth a tu, junquèira , e junquèira,

D’on sortiva una audor poderosa de sau ;

Dempuèi pausa, lo Ròine, auré sobut d’un saut,

Juncs e gran paret de sableira.

 

Da essa a te, giuncaia, e giuncaia,

Da dove proveniva un odore potente di sale;

Da tempo, il Rodano, avrebbe varcato, di un salto,

Giunchi e grande parete sabbiosa.

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Tu, los juncs, èras tan longuèira a los negar,

Que, quan a las ròcas toquères,

Las ! dijà, la mei hauta d’eras,

Barrèva lo sol lòc on podèvas passar.

 

Tu, i giunchi, eri tanto lunga ad annegarli,

Che, quando toccasti le dune,

Ahimè,  già la più alta di esse

Sbarrava il solo posto dove potevi passare.

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Es qu’a la baisha de la ròca,

Badèva un cròt pujant, e au lòc de devarar,

Per de jònher a la mar, te falèva escalar

Aquera hauta bossiròca.

 

È che la base della duna,

Contemplava un abisso elevato, e invece di scendere,

Per raggiungere l’Oceano, ti occorreva arrampicare

Questa alta gobba.

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Tot en pluja, un ivèrn, mei que hòrt t’ajudèt

A pujar haut dens la trencada,

Mès la ròca, l’avès rogada,

E lo sable esgraulat, ton camin te bocèt.

 

Un inverno più che piovoso ti aiutò

A issarti alto nella trinciata,

Ma la duna, l’avevi rosicchiata,

E la sabbia rovinata, il tuo cammino ostrusse.

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Entretemps, la pluja abondosa,

T’aver hèit de pertot  escòrrer de ton leit ;

E heres alavetz, de la ròca en arrèir,

Una lacosa espectaclosa.

 

Frattempo, la pioggia abbondante,

Ti aveva fatto dappertutto scorrere fuori dal tuo letto;

E tu facesti allora della duna indietro,

Una laguna spettacolare.

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Médoc: Assembramento di asini e di pecore!

Agosto nel Médoc. tranne le nuvole di zanzare e di zanzare tigri che non mi danno tregua dalla mattina alla sera, pensate un po’ che i soli esseri viventi che ho visto questo weekend sono questi asini e queste pecore raggruppati sotto un albero in un campo. Quindi la mia probabilità di contrarre il covid-19 è infinitesimale. In realtà, sono più a rischio di prendere la febbre dengue (c’è stato un caso nel dipartimento accanto) del covid-19. Il vantaggio di vivere in campagna o no. 🙂 

La duna degli involtini d’estate!

Al mercatino del sabato mattina, ci sono i turisti parigini che si fermano alla bancarella della “cinese” per comprare i loro involtini primavera. Scrivo “parigini”, ma possono essere anche bordolesi, è solo un modo di dire tutto mio per designare qualsiasi persona che può permettersi di spendere 2 euro per un involtino. Un parigino. Eppure non sono un granché da preparare questi involtini e senza spendere un capitale. Una mezz’ora e ne avete preparato velocemente una quindicina. Mi direte che non sono gli stessi involtini primavera della “cinese” del mercato, ma la “cinese” del mercato è originaria del Laos e la figlia che viene darle una mano in estate, che parla con la madre nella sua lingua natale e che fa finta di capire solo due o tre parole di francese per vendere meglio gli involtini ai parigini, è andata alla scuola materna con me, è ingegnera ed è più bordolese di me! 😉

Bon ap’

Bacino di Arcachon e Poesia: Il canto della Leyre. Seconda parte.

Se avete mancato la prima parte, cliccate qui. Quest’estate vi propongo un viaggio lungo il fiume Leyre attraverso una bellissima poesia di Emilien Barreyre intitolata appunto: Il canto della Leyre. Ecco la seconda parte.

 

 

Ah ! Segur, Lèira, de ta cossa,

Si vedèva  au sorelh laginar lo tralhat,

Mès en tan chic de hons qu’auré tot just levat,

Dens ton aiga un chaupic de mossa.

 

Ah! Certo, Leyre, dal tuo corso,

Si vedeva al sole scintillare il percorso,

Però tanto poco profondo che avrebbe sollevato appena,

nella tua acqua un’ombra di schiuma. 

 

 

Atau, casi secada, arriulères cent ans;

Mès la natura mairanèira,

Te balhèt la Pichona Lèira*,

E augures d’òra-avant perhontor e balanç,

 

Così, quasi  in secca, stillasti cento anni;

Però la natura materna,

Ti regalò la Piccola Leyre*,

E avesti d’ora in poi profondità e corrente,

 

 

Dinc’aqui per la haironèra,

N’èras qu’un carrinclòt qu’a plenh un vergon,

Adara, l’ahamat, l’assoladit hairon,

Se pausèva qu’a ta ribèra.

 

Fin là per gli aironi,

Eri appena un solco che riempie la pioggia,

Ora, l’affamato, il solitario airone, 

Si posava sul tuo fiume.

 

 

De temps en temps, ton aiga, a ton ras sableirós,

Un tròc de clanca darriguèva,

Que segur, aqui, s’escondèva

Dempuèi l’atge on lo sable engorguèt l’aliòs*.

 

Ogni tanto, la tua acqua, alla tua sabbia,

Un pezzo di conchiglia strappava,

che certamente, là, si nascondeva

Dai tempi dove la sabbia imprigionava l’alios*

 

 

Ah ! S’avès augut tau l’aujame

Lo sens miravilhós qu’a recebut das cèus,

Lavetz aurès credut a veire aqueths clanquèus,

Tota a tocar la mar que brama.

 

Ah! Se avessi avuto tale l’uccello

Il senso meraviglioso ricevuto dai cieli,

Allora avresti creduto di vedere queste conchiglie,

Tutte a toccare l’Oceano che mugghia.

(fine seconda parte)

 

*La Piccola Leyre, l’affluente principale della Leyre.

*Alios, Sotto la superficie sabbiosa, grès rosso impermeabile caratteristico del sottosuolo delle lande di Bordeaux.

 

 

Gironda: Un giorno a Bazas!

Bazas a Sud di Bordeaux è una cittadina sulla via inglese del cammino di Compostela, l’ultima tappa, dicevano i pellegrini di una volta, prima di lasciare la Civiltà per andare a morire di malaria nelle maledette lande paludose di Bordeaux. Fine del pellegrinaggio. Amen. Si dice che una vasate (un’antica abitante di Bazas dal nome della tribù celtica che abitava il paesello ai tempi antichi) sarebbe andata – chissà perché – fino in Palestina, poi sarebbe tornata nel paesello di Bazas con uno straccio esciumpato (dall’antico verbo bordolese “eschompar cioè inzuppare) dal sangue di un certo Giovanni Battista. E lei insisteva dicendo che ci voleva costruire un duomo per dare uno scrigno a questa gueille (straccio in bordolese). Notate che gli abitanti di Bazas non sono per niente contrari e hanno costruito per soddisfare la fantasia della loro concittadina, il duomo di San Giovanni Battista. E quindi se vedete delle raffigurazioni di testi su piatti d’argento ovunque nel paesello, non vi spaventate, è per ricordare l’episodio della vecchia che riportò dalla Palestina questo souvenir macabro e insanguinato. Notate ancora ma non credo ci sia un rapporto, che Bazas è il paese di una razza bovina che dà il miglior manzo del mondo. Dimenticate il manzo di Kobe, è quello di Bazas il miglior dell’universo! E quindi c’è una festa del bue grasso a Bazas, ogni anno, il giovedì prima di Mardi Gras. Gli allevatori fanno passeggiare le loro bestiole piene di corone di fiori il giorno prima di essere inviate al mattatoio. Oggi, non le uccidono più in pubblico dopo la sfilata come una volta. Cos’è il progresso! Dunque  vi ho raccontato perché il Duomo è dedicato a un tizio che ha letteralmente perso la testa, del manzo più buono del Mondo e ora vi racconto di Crasso. Di questo Crasso, Giulio Cesare ne ha la bocca piena nel suo De Bello Gallico, era uno dei suoi luogotenenti o qualcosa del genere. Allora questo Crasso si ritrovò in Aquitania a divertirsi un mondo, lontano da Roma. E il vecchio che faceva la guerra in Gallia, lo tormentava a scrivergli delle domande tipo: allora la conquista dell’Aquitania? Pensate un po’ come il Crasso aveva voglia di smettere di far bisboccia per uccidere i suoi compagni di sbevazzata! Dopo un’ennesima notte di movida nei dintorni di Bazas, quel Crasso ricevette una nuova lettera di Cesare. E, l’altro, il Crasso, esasperato, gli scrisse una frottola tipo: ho conquistato Bazas, la città è caduta con i suoi settantamila abitanti. Pensate un po’! Al massimo il tizio sarebbe riuscito a impadronirsi delle chiavi di un bar della piazza del comune! Ah questi italiani, sempre a esagerare in tutto! Ma l’altro, il vecchio, ci crede a questa storia e lo scrive nel suo libro! Andate a capire! Già che oggi Bazas ha meno di cinquemila abitanti, immaginate un po’ durante l’Antichità! Il popolo dei Vasati e Bazas dovevano essere tre case e due famiglie perse nelle lande infette di Bordeaux!  Vi giuro che a Bazas hanno avuto tutte le sciagure dell’Universo durante la storia! Quasi un record mondiale! La cittadina è stata invasa dai Galli, dai Romani, dai Visigoti, dai Saraceni, dai Franchi, dai Francesi, dagli Inglesi, dai Papisti, dagli Ugonotti, dai Monarchici, dai Rivoluzionisti. Le chiese di Bazas sono state distrutte novantanove volte e ricostruite novantanove volte! Ma cos’è Bazas nel fondo? Una cittadina su un isolotto roccioso. Una via; una piazza centrale con le sue arcate medievali; il duomo; la chiesa di Notre Dame dau Mercandilh (cioè del mercatino), fondata da San Marziale,  che è condannata e di cui si fa il giro; il piccolo giardino del vescovo; case brutte e altre belle come la strana casa dell’astronomo (capite l’astrologo) con gli astri (Luna, Sole, Cometa)  scolpiti sopra le finestre della facciata; le mura medievali. Ci si va il sabato per il mercato sulla piazza del comune per comprare prodotti tipici del Sud-Ouest. Ci si mangia e si beve prima di continuare il viaggio verso Nord o verso Sud. Insomma non c’è differenza con il Bazas dei tempi passati, tranne che le lande hanno lasciato posto alla più grande foresta d’Europa. Sotto le arcate, leggo un articolo, tutto ingiallito, del giornale Sud-Ouest affisso sulla vetrina di una pasticceria, l’articolo dice che la pasticceria ha vinto il concorso mondiale della migliore meringa. Più lontano, mi siedo alla terrazza di un bar, al riparo dal sole, sotto le arcate. Il bar sembra una grotta, un omone beve una birra artigianale alla tavola accanto e mi dice che non è la prima della giornata. Lui fa il giro dei bar  secondo quelli che sono più esposti alla brezza che soffia sotto le arcate. Secondo lui, vince quello sotto la “casa dei lavoratori”. Il padrone non si fa vedere, l’omone dice che il tizio sta preparando la sua sangria per la serata. Pensavo a un caffè senza zucchero, ma una sangria mi sta meglio. Una sangria per favore! grido verso la grotta. Il padrone dall’interno mormora qualcosa che non capisco. Guardo dall’altro lato della piazza, una coda che si è formata sotto l’arcata lato Municipio. L’omone dice che è un negozio di gelati all’italiana, che è la cosa che mancava il più a Bazas e che ormai con questi gelati all’italiana sono in paradiso. Sorrido pensando che il gelato all’italiana è completamente sconosciuto in Italia. Buoni? chiedo. Eccome, risponde l’omone, ne ho mangiato uno dieci minuti fa! Il padrone mi porta la mia sangria, chiacchieriamo pigramente, di tutto e di niente, ma soprattutto di questa storia di Covid-19. Il padrone dice di essere contento di aver potuto chiudere un po’, che aveva bisogno di vacanze. Non vi dico la noia che provo! Poi, qualcosa cade da una delle finestre della casa dell’astronomo, è la biancheria della vicina sopra che stava asciugando al sole. Un paio di mutande si pone su un ombrellone del bar accanto che ha la terrazza che morde sulla piazza. L’omone e il padrone ridono come dei matti, tentano di ricuperare le mutande. Li capisco, forse è il solo imprevisto successo in questa calda settimana di luglio. Ne hanno per la giornata a parlare di queste mutande. Strano di essere sotto la casa dell’astronomo, mi dico. Mi ricordo vagamente di qualcosa, una storia orrenda del tempo passato. Lascio i due uomini  fare gli adolescenti, per cercare sul mio telefono che contiene più della Biblioteca di Alessandria. Ah, ecco, la cosa è successa a Bazas il 11 febbraio 1637…..

Per dire il vero sull’esecuzione che è stata eseguita nella città di Bazas, presso la città di Bordeaux, il 11 febbraio di questo anno 1637 dei tre Stregoni e maghi di cui l’uno si chiamava Galeton, l’altro Jassou, e il terzo Pautier, contadini e rustici di età per il più giovane di circa sessant’anni. Pautier per la sua maledetta magia e stregoneria perpetrava, giornalmente, malefici abominevoli e, in particolare, lanciò una fattura a una donna molto onesta che le fece tanto turbare i sensi che correva come rabbiosa attraverso i campi; e quando era chiusa in qualche stanza dove si poteva a malapena trattenerla, gettava urli terribili che erano la causa per cui la gente del paese andavano a vederla a casa sua con grande compassione.

Alcuni padri Recolletti ci andarono più volte, vedere questa giovane donna tormentata, la quale gridava a squarciagola che vedeva i detti tre stregoni (designando loro dai loro propri nomi) accompagnati da alcuni Diavoli e Demoni orribili. E anche gli assistenti vedevano allora volare pietre senza poter determinare la loro provenienza. Il rapporto di questo spettacolo essendo venuto agli orecchi dei Signori della Giustizia, loro si trasportarono nella casa della donna, e avendo raccolto il lamento della donna così afflitta in cui lei dichiarava che Galeton le aveva detto che era Pautier che le aveva lanciato la fattura, allora si decise di farli arrestare. A proposito di ciò, i Signori della Giustizia si portarono sui luoghi, e afferrarono il detto Galeton e il detto Pautier e fecero portare loro in carcere. L’indomani si arrestò anche Jassou. La Giustizia volendo istruire ampiamente questo processo criminale su una materia così prodigiosa, deliberando di udire loro seriamente sulle loro accuse, portarono i tre Stregoni, l’uno dopo l’altro, davanti al loro tribunale dove loro ci andarono a testa alta. Erano decisi come i più innocenti degli uomini del mondo. tuttavia furono interrogati tante volte che cominciarono a vacillare ea mutare. Perché Galeton che era il più anziano essendo accusato di magia fu il primo a cui fu applicato la Questione (nb: ho italianizzato la parola francese Question che è un tipo di tortura usata dall’inquisizione. Questione ordinaria, poi si passa alla Questione straordinaria per i più resistenti, applicare la Questione a qualcuno/torturare qualcuno). Gli si mise pesi sul corpo, sopportò alcuni colpi di frusta con una grossa corda, tanti che tre corde si ruppero sulle sue braccia, e quando era sul banco della Questione il suo Demone si presentò a lui e si pose sulla sua guancia, essendo stato rilasciato. Il Signor relatore lo interrogò, Galeton dichiarò che era vero che era il suo Demone che gli chiudeva la bocca e che si chiamava Xibert, e vedendo che era minacciato di nuovo di essere rimesso più forte alla Questione, ed esattamente interrogato, confessò tutto, dichiarò che era colpevole e convinto del crimine di cui veniva accusato, disse che era Pautier che aveva lanciato la fattura alla donna afflitta. Jassou essendo ugualmente applicato alla Questione, la sopportò  così aspramente che non era possibile che la cosa non sia soprannaturale. Finalmente, si decise di scaldare i suoi stivali (gli furono messi dei tizzoni accesi negli stivali). Al primo colpo di conio che gli venne dato, gridò di essere lasciato in pace ed è quello che si fece. Jassou confessò che era stregone, e che si era recato più volte al sabba dove aveva visto Pautier, confessò anche che aveva dato e commesso alcuni malefici di magia e stregoneria, e ne accusò altri delle loro cabale.

L’indomani si procedette all’interrogazione di Pautier, il quale essendo davanti ai Signori non volle confessare niente anche quando fu messo in presenza dei due altri, i quali mantennero che era lui che aveva lanciato la fattura a questa donna afflitta, e che era andato più volte al sabba con loro. Pautier negò tutto e avendolo applicato alla Questione, gli si diede l’ordinaria e la straordinaria. Ma più la Questione veniva applicata, più Pautier gridava che era innocente. Vedendo che non si andava lontano a interrogarlo e ad applicargli la Questione. E visto che questo maledetto stregone aveva, di continuo, il suo Demone che gli teneva la bocca chiusa per impedirlo di confessare il suo peccato.  Mentre gli altri erano interrogati, si fecero venire alcuni di quelli che erano tormentati e afflitti dalle loro fatture nella camera criminale per essere presentati agli stregoni. E appena arrivarono, furono tormentati e oppressi, facendo segni e gridi terrificanti, dichiarando che vedevano una masnada di Demoni orrendi tutto intorno dei detti stregoni, di cui l’uno fece segno che era Pautier che faceva il più di male. Avendo dunque, i Signori Giudici e gente del Re, lavorati diversi giorni all’istruzione del processo, e vedendo un così grande numero di prove e un così grande numero di testimoni contro di loro, diedero Sentenza per la quale loro furono condannati a fare onorevole ammenda nudi in camicia, la corda al collo, inginocchiati, tenendo ogni di loro una grossa fiaccola di cera ardente, e di chiedere perdono a Dio, al Re e alla Giustizia; poi di essere portati fuori città, in un luogo chiamato “le Arene” e di essere, ognuno di loro attaccato a un palo, che per quell’effetto saranno eretti per loro, e le loro ceneri buttati al vento.

Essendo giunti al luogo destinato per i supplizi, furono legati ognuno al suo palo, poi circondato di un potente rogo di legna, al quale non si mise fuoco subito. I padri Recolletti che assistevano i tre stregoni, fecero loro sincere rimostranze, per tentare di salvare le loro anime, incitando loro di scaricare interamente le loro coscienze, e visto che avrebbero ancora abbastanza tempo, per aver grazia e misericordia dei loro peccati e mettere le loro anime in pace, le quali erano in via di dannazione se morissero nei loro peccati. Quel miserabile Pautier non volendo mai confessare niente, ed era il Diavolo che non l’aveva mai abbandonato e gli aveva, di continuo, chiuso la bocca di paura di confessare qualcosa. I due altri vedendo la perseveranza e maliziosa tenacia di Pautier non vollero dire niente di più che quello che avevano già confessato ai Giudizi. Vedendo che non si poteva ottenere niente da loro. Al segnale dato, il Boia mise fuoco al rogo, e non appena prese fuoco, si udirono (il quale appena fu infiammato, che si udirono) gridi, spaventosi, tempeste e temporali si scatenarono in aria, tifoni di fuoco si lanciarono fuori dal rogo, fantasmi apparvero in mezzo alle fiamme facendo azioni così spaventose e orribili che diedero un così grande terrore, che fecero ritirare in fretta più di due mille persone che assistevano all’esecuzione e anche il Boia di scappare finché la legna fu consumata. La quale dovette essere aumentata per ridurre i corpi dei tre miserabili in cenere; corpi che puzzavano tanto di infezione che non si poteva credere che una cosa simile potesse esistere. I corpi misero più di ventiquattro ore a consumarsi, poi furono buttati al vento. 

Alzo gli occhi, i due uomini stanno ancora scherzando a proposito delle mutande. Il sole splende. Fa fresco sotto le arcate. Aspetto che chiudono la discussione per chiedere una seconda sangria…..

 

Bacino di Arcachon e Poesia: Il canto della Leyre.

Ne vale la pena di fare una passeggiata lungo la Leyre, di subire gli assalti delle tigri, delle zecche e dei serpenti? Credetemi che tutto questo fastidio si dimentica presto davanti allo spettacolo delle centinaia di damigelle blu che danzano sopra le acque del fiume e che sembrano diamanti quando il sole le attraversa. Oggi vi propongo una traduzione grossolana e approssimativa fatta da me – dove purtroppo si perdono le rime, ma accetto tutti i suggerimenti per migliorare il mio testo!  – della prima parte di una poesia, Il canto della Leyre (pronunciate Leir), di Emilien Barreyre. Nato ad Arès nel 1883, Barreyre è il poeta del mare e della vita vissuta dai marinai del Bacino di Arcachon. Pescatore e figlio di un pescatore. Nessuno ha saputo come lui cantare l’oceano guascone, le sue sponde, la sua gente. Spinto da un povertà estrema, Barreyre lascerà il il suo caro Bacino di Arcachon nel 1930 e si stabilirà nella periferia parigina e, dopo alcuni anni a fare l’operaio la giornata e a scrivere poesie la notte, ci morirà nel 1944, senza mai aver potuto tornare nella sua terra natia. Notate che gli scatti, fatti durante la mia passeggiata, sono quelli di un piccolo affluente della Leyre.

Òh ! que lo siagle es lunh que te vit sorgilhar,

Ò cara e encatadora Lèira !

Dijà, lavetz, òh ! quau sablèira,

A vint lègas arrèir de nòsta granda mar !

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Oh! che il secolo che ti vide scaturire è lontano,

O cara e incantevole Leyre!

Già, allora, o! quanta sabbia,

A venti leghe a ridosso del nostro Oceano! 

Per aver au sorelh ta plaça,

Ailas ! avès causit, tu, lo tan pichon riu,

Aqueth tan gran terraire on ren qu’un ombra viu :

La de la nublada que passa.

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Per aver il tuo posto al sole,

Ahimè! avevi scelto, tu, il così piccolo fiume,

Quel tanto gran Paese dove la sola ombra vivente:

È quella della nuvola che passa.  

Òh ! lo sòrt tristejant de néisher en lòcs atau,

On autanlèu qu’èra  cairada,

La mei gran pluja èra eschompada,

Per lo sable assetat d’aqueth campàs mortau.

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Oh! la triste sorte di nascere in tali luoghi,

Dove appena era caduta,

la più grande pioggia era assorbita,

Per la sabbia assetata di questa landa mortale.

Ò riu nanòt, qu’èras a plànher,

Tu qu’èras qu’un ploric en país vasconian,

Lavetz que la Garona au front dau Vau d’Aran

Riulèva emb brut, e pas de canha.

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O fiume nano, eri a compiangere,

Tu che eri una lacrima in paese guascone,

Mentre la Garonna al fronte della val d’Aran

Correva rumorosa, e senza sudare.

Avès pertant com era un gran rèule a jogar :

Mès tau rèule coma lo tèner,

Tu, tant estreita, que shens pena,

Un chancat lanusquet  t’auré poscut gamat.

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Avevi pure come essa un grande ruolo da giocare:

Però quel ruolo come lo giocare,

Tu, così stretta, che senza sforzo, 

Un landese su suoi trampoli ti avrebbe potuto scavalcare.

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Fine prima parte

 

Bordeaux: La dieta bordolese!

Asterix e Obelix davanti a una bancarella dove si vendono specialità di Burdigala cioè ostriche e vino bianco. Che altro? vignette tratte dall’albo Il giro della Gallia

Finito per me i banchetti a base di anatra e di maiale. Finito il grasso, lo zucchero, l’alcol, il formaggio, il pane, i dolci. Addio alla vita tutto è finito. La dottoressa mi ha detto di mettermi a dieta se non voglio crepare. Le ostriche, ho supplicato, non mi togliete le ostriche altrimenti meglio che mi faccia saltare subito la testa! Lei, che aveva la mia vita tra le sue mani, mi ha guardato come se fossi l’ultimo dei miserabili e, dopo un momento di suspense, ha lasciato sospirando: Sì, ostriche anche tutti i giorni e anche i mesi senza la R. Sollievo infinito. Ho deciso di tentare di nuovo la mia chance davanti a questo inflessibile dragone: Ovviamente le ostriche senza vino bianco….un mezzo bicchierino al giorno, ha tagliato corto la bisbetica, non la bottiglia che la conosco troppo bene….. 😉   

Oceano: Dove il lettore verrà a sapere che Gatto Silvestro non è per forza un gatto in Francia!

 

Questa pianta erbacea (Lagurus Ovatus) che non serve proprio a niente e che cresce nelle nostre dune tra i cisti, i corbezzoli, le brughiere e le ginestre, si chiama in italiano: piumino oppure coda di lepre. Invece in francese, la pianta è conosciuta sotto il nome di gros-minet che è il nome che il Titi francese (con solo due t) dà a Gatto Silvestro. Titi, il canarino, non dice come Titti, il suo omologo italiano:  Oh, oh, Mi è semblato di vedele un gatto! Già perché, da noi, il nostro Titi non ha problema con la lettera R e soffre solo di una pronuncia blesa, ma soprattutto perché lui non vede un semplice gatto, ma un grosso micio cioè letteralmente in francese un gros minet: Z’ai cru voir un ‘rominet ! dice il nostro canarino francesizzato. A volte, incontrate, chissà perché, persone che raccolgono quei gatti silvestri  per farne dei mazzi di fiori secchi. Gli spighi bianchi dei gatti silvestri sono più serici dei peli miseri di Gatto Silvestro quando li accarezzate, ma possono anche farvi starnutare se li avvicinate al vostro naso. Come un micio, vi dico! Tranne ovviamente che il gatto silvestro delle dune non scoccia gli uccelli oppure il suo prossimo come Gatto Silvestro e non fa le fusa come un gros minet! 😉