Espressione francese e duna del Pilat: En chier des ronds de chapeau!

Questi “ronds de chapeau” erano cerchi di piombo che si mettevano dentro i cappelli per mantenerne la forma. Pensate un po’ la sofferenza estrema se doveste cagare una moltitudine di quei “ronds de chapeau”! Non c’è bisogno di farvi un disegno! Dunque L’espressione significa soffrire o far soffrire atrocemente. Volete un esempio concreto, cari lettori e care lettrici? Allora, immaginate come ne cagano dei cerchi di cappelli i migliaia di turisti che si recano, ogni giorno, alla Teste de Buch e che sono costretti da un’ordinanza comunale di salire mascherati i 107 metri di altezza della duna del Pilat sotto i quaranta gradi che abbiamo in quest’estate torrida (peggio di quella del 2003!). Ma non sarebbe meglio di chiudere questa fottuta attrazione invece di far cagare dei cerchi di cappelli a tutta questa gente e rischiare un’epidemia di morti per infarto? Un po’ di buon senso, banda di sadici!

Bacino di Arcachon e poesia: Il canto della Leyre. Terza parte.

Terza parte del bellissimo Canto della Leyre del poeta di Arès, Emilien Barreyre. Abbiamo assistito alla nascità della Leyre, poi abbiamo scoperto come la Leyre è diventata un fiume. Ora vediamo se la Leyre riuscirà a raggiungere l’Oceano. Questa poesia è un canto quindi ci saranno altri appuntamenti man mano che  tradurrò l’antica lingua dei nostri nonni in italiano. 

 

Lavetz aurés credut, ò Lèira, que n’avès,

Tot dreit davant o en reviradas,

Qu’a riular quauquas cent braçadas

Per veire la mar granda esparrada a tòs pès.

 

Allora avresti creduto, o Leyre che avevi,

dritto davanti o facendo virate,

Solo a scorrere qualche cento braccia

Per vedere l’Oceano steso ai tuoi piedi

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De v’rai, n’èras pas alunhada ;

Mès, per en chic de temps a-d era te mesclar,

Au lòc d’estar la Lèira, auré falut estar

La Garona en granda pujada.

 

Veramente, non eri tanto allontanata;

Però, per un po’ di tempo a esso mescolarti,

Invece di essere la Leyre, sarebbe dovuta essere

La Garonna in grande straripamento

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Es qu’enlà, davant tu, dau Siroet au Noroet,

Haut de cent pè, long d’una lèga,

E dentejat com una sèga,

Se mastèva, blancós de sable, un gran paret.

 

È che di là, davanti a te, dal vento del Sud a quello del Nord,

Alto di cento piedi, lungo di una lega,

E dentata come una sega,

Si rizzava, biancastro di sabbia, una grande parete.

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D’eth a tu, junquèira , e junquèira,

D’on sortiva una audor poderosa de sau ;

Dempuèi pausa, lo Ròine, auré sobut d’un saut,

Juncs e gran paret de sableira.

 

Da essa a te, giuncaia, e giuncaia,

Da dove proveniva un odore potente di sale;

Da tempo, il Rodano, avrebbe varcato, di un salto,

Giunchi e grande parete sabbiosa.

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Tu, los juncs, èras tan longuèira a los negar,

Que, quan a las ròcas toquères,

Las ! dijà, la mei hauta d’eras,

Barrèva lo sol lòc on podèvas passar.

 

Tu, i giunchi, eri tanto lunga ad annegarli,

Che, quando toccasti le dune,

Ahimè,  già la più alta di esse

Sbarrava il solo posto dove potevi passare.

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Es qu’a la baisha de la ròca,

Badèva un cròt pujant, e au lòc de devarar,

Per de jònher a la mar, te falèva escalar

Aquera hauta bossiròca.

 

È che la base della duna,

Contemplava un abisso elevato, e invece di scendere,

Per raggiungere l’Oceano, ti occorreva arrampicare

Questa alta gobba.

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Tot en pluja, un ivèrn, mei que hòrt t’ajudèt

A pujar haut dens la trencada,

Mès la ròca, l’avès rogada,

E lo sable esgraulat, ton camin te bocèt.

 

Un inverno più che piovoso ti aiutò

A issarti alto nella trinciata,

Ma la duna, l’avevi rosicchiata,

E la sabbia rovinata, il tuo cammino ostrusse.

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Entretemps, la pluja abondosa,

T’aver hèit de pertot  escòrrer de ton leit ;

E heres alavetz, de la ròca en arrèir,

Una lacosa espectaclosa.

 

Frattempo, la pioggia abbondante,

Ti aveva fatto dappertutto scorrere fuori dal tuo letto;

E tu facesti allora della duna indietro,

Una laguna spettacolare.

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Bacino di Arcachon e Poesia: Il canto della Leyre. Seconda parte.

Se avete mancato la prima parte, cliccate qui. Quest’estate vi propongo un viaggio lungo il fiume Leyre attraverso una bellissima poesia di Emilien Barreyre intitolata appunto: Il canto della Leyre. Ecco la seconda parte.

 

 

Ah ! Segur, Lèira, de ta cossa,

Si vedèva  au sorelh laginar lo tralhat,

Mès en tan chic de hons qu’auré tot just levat,

Dens ton aiga un chaupic de mossa.

 

Ah! Certo, Leyre, dal tuo corso,

Si vedeva al sole scintillare il percorso,

Però tanto poco profondo che avrebbe sollevato appena,

nella tua acqua un’ombra di schiuma. 

 

 

Atau, casi secada, arriulères cent ans;

Mès la natura mairanèira,

Te balhèt la Pichona Lèira*,

E augures d’òra-avant perhontor e balanç,

 

Così, quasi  in secca, stillasti cento anni;

Però la natura materna,

Ti regalò la Piccola Leyre*,

E avesti d’ora in poi profondità e corrente,

 

 

Dinc’aqui per la haironèra,

N’èras qu’un carrinclòt qu’a plenh un vergon,

Adara, l’ahamat, l’assoladit hairon,

Se pausèva qu’a ta ribèra.

 

Fin là per gli aironi,

Eri appena un solco che riempie la pioggia,

Ora, l’affamato, il solitario airone, 

Si posava sul tuo fiume.

 

 

De temps en temps, ton aiga, a ton ras sableirós,

Un tròc de clanca darriguèva,

Que segur, aqui, s’escondèva

Dempuèi l’atge on lo sable engorguèt l’aliòs*.

 

Ogni tanto, la tua acqua, alla tua sabbia,

Un pezzo di conchiglia strappava,

che certamente, là, si nascondeva

Dai tempi dove la sabbia imprigionava l’alios*

 

 

Ah ! S’avès augut tau l’aujame

Lo sens miravilhós qu’a recebut das cèus,

Lavetz aurès credut a veire aqueths clanquèus,

Tota a tocar la mar que brama.

 

Ah! Se avessi avuto tale l’uccello

Il senso meraviglioso ricevuto dai cieli,

Allora avresti creduto di vedere queste conchiglie,

Tutte a toccare l’Oceano che mugghia.

(fine seconda parte)

 

*La Piccola Leyre, l’affluente principale della Leyre.

*Alios, Sotto la superficie sabbiosa, grès rosso impermeabile caratteristico del sottosuolo delle lande di Bordeaux.

 

 

Bacino di Arcachon e Poesia: Il canto della Leyre.

Ne vale la pena di fare una passeggiata lungo la Leyre, di subire gli assalti delle tigri, delle zecche e dei serpenti? Credetemi che tutto questo fastidio si dimentica presto davanti allo spettacolo delle centinaia di damigelle blu che danzano sopra le acque del fiume e che sembrano diamanti quando il sole le attraversa. Oggi vi propongo una traduzione grossolana e approssimativa fatta da me – dove purtroppo si perdono le rime, ma accetto tutti i suggerimenti per migliorare il mio testo!  – della prima parte di una poesia, Il canto della Leyre (pronunciate Leir), di Emilien Barreyre. Nato ad Arès nel 1883, Barreyre è il poeta del mare e della vita vissuta dai marinai del Bacino di Arcachon. Pescatore e figlio di un pescatore. Nessuno ha saputo come lui cantare l’oceano guascone, le sue sponde, la sua gente. Spinto da un povertà estrema, Barreyre lascerà il il suo caro Bacino di Arcachon nel 1930 e si stabilirà nella periferia parigina e, dopo alcuni anni a fare l’operaio la giornata e a scrivere poesie la notte, ci morirà nel 1944, senza mai aver potuto tornare nella sua terra natia. Notate che gli scatti, fatti durante la mia passeggiata, sono quelli di un piccolo affluente della Leyre.

Òh ! que lo siagle es lunh que te vit sorgilhar,

Ò cara e encatadora Lèira !

Dijà, lavetz, òh ! quau sablèira,

A vint lègas arrèir de nòsta granda mar !

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Oh! che il secolo che ti vide scaturire è lontano,

O cara e incantevole Leyre!

Già, allora, o! quanta sabbia,

A venti leghe a ridosso del nostro Oceano! 

Per aver au sorelh ta plaça,

Ailas ! avès causit, tu, lo tan pichon riu,

Aqueth tan gran terraire on ren qu’un ombra viu :

La de la nublada que passa.

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Per aver il tuo posto al sole,

Ahimè! avevi scelto, tu, il così piccolo fiume,

Quel tanto gran Paese dove la sola ombra vivente:

È quella della nuvola che passa.  

Òh ! lo sòrt tristejant de néisher en lòcs atau,

On autanlèu qu’èra  cairada,

La mei gran pluja èra eschompada,

Per lo sable assetat d’aqueth campàs mortau.

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Oh! la triste sorte di nascere in tali luoghi,

Dove appena era caduta,

la più grande pioggia era assorbita,

Per la sabbia assetata di questa landa mortale.

Ò riu nanòt, qu’èras a plànher,

Tu qu’èras qu’un ploric en país vasconian,

Lavetz que la Garona au front dau Vau d’Aran

Riulèva emb brut, e pas de canha.

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O fiume nano, eri a compiangere,

Tu che eri una lacrima in paese guascone,

Mentre la Garonna al fronte della val d’Aran

Correva rumorosa, e senza sudare.

Avès pertant com era un gran rèule a jogar :

Mès tau rèule coma lo tèner,

Tu, tant estreita, que shens pena,

Un chancat lanusquet  t’auré poscut gamat.

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Avevi pure come essa un grande ruolo da giocare:

Però quel ruolo come lo giocare,

Tu, così stretta, che senza sforzo, 

Un landese su suoi trampoli ti avrebbe potuto scavalcare.

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Fine prima parte

 

Bacino di arcachon e covid-19.

Il vantaggio del mar oceano nei confronti del mar mediterraneo? Da noi, due volte al giorno, tutto è disinfettato grazie alle maree!

Durante il confinamento, mentre certi si studiavano l’inglese grazie a delle applicazioni su internet, io mi sono studiato, in dilettante, la lingua dei nonni dentro vecchi libri. Risultato: un disastro. Ora, faccio un pasticcio tra l’italiano e il guascone. Di cui il testo sotto!

Sheitat all’ombra di un vecchio tambarin, osservo un mainatge che rossiga un secchiello più grosso di lui. Sulla diga, una dauna gita, per la centesima volta, la stessa pigna puzzolente al suo cane che non sembra voler mai stancarsi di questo gioco. Lo dròlle si è fermato e ora, eccitato, trauca la hanha alla ricerca di qualche tesoro. Poi, dopo meno di cinque minuti, si mette a crider: ey gahet un gran, nonna! La nonna che ravassejava sulla sabbia dice al nipote di smettere di trementar i granchi e di amassar piuttosto tes che essi non pinzano. Mar venenta. Il bacino d’Arcaishon sembra completamente despudat. A patto di aver mastons, si potrebbe forse chambolhar fino alla montagna d’Arcaishon sull’altra riva apei montar la ròc Blanca. Il mio sguardo segue la linea del ribatge sud e posso quasi respirare lo perhum dei grans pins delle lanas. Poi, gaiti verso Nord, l’isla das audeths e i suoi cabans chancats in mezzo alla laca, i batèus ajacats sulla melma. la penisola dau Herret con i suoi paesi cachats ai piedi dei piqueys, il far roge e blanc nel lontano, gaiti quasi truncas a la mar. La campana della gleyza d’Endarnòs barlumpeja nonché i mas dei batèus che tringlen accarezzati dal vento. Le lirondas voltigiano harlupent marmauches. Se fossi più intelligente, saprei che dus cops al giorno c’è la malina e avrei letto il giornale per conoscere gli orari, ma cosa aspettare di un tizio del Médoc? Niente, ovviamente! Va bene, ancora un’ora e forse potrei chorilhar. 😁😁😁

Sheitat/seduto, tambarin/tamerice, mainatge/bambino, rossiga/trascina, dauna/donna, gita/lancia, dròlle/persona (termine affettuoso), trauca/scava, hanha/fango, crider/gridar, ey/ho, gahet/preso, gran/granchio, trementar/tormentare, amassar/raccogliere, tes/conchiglie, mar venenta/bassa marea, Arcaishon/Arcachon, despudat/vuotato (despudar/vuotare uno stagno), mastons/racchette che permettono di camminare sul fango, chambolhar/camminare nell’acqua per divertirsi, apei/poi, montar/salire, ròc blanca/duna del Pilat, ribatge/sponda, perhum/profumo, lanas/lande, Isla das audeths/isola degli uccelli, cabans chancats/capanne su palafitte, laca/lago, batèus/barche, ajacats/sdraiati, Herret/Ferret, cachats/nascosti, piqueys/dune, roge/rosso, truncas a/fino a, gleyza/chiesa, Endarnòs/Andernos, barlumpejar/sonare, mas/alberi, tringlen/tintinnano, lirondas/rondini, harlupen/inghiottono, marmauches/insetti, dus cops/due volte, malina/marea, chorilhar/guazzare.

 

 

Bacino di Arcachon: Insieme con Monica in cima alla duna di Piraillan!

 

Febbraio. Se avessi un giorno da trascorrere con Monica, lei mi chiederebbe – probabilmente no, ma mi piace crederlo – di portarla a mangiare ostriche su quel lembo di sabbia che è la penisola del Ferret. Allora partiremmo da casa mia verso Ovest in direzione dell’oceano, attraverseremmo l’immensità delle pinete industriali di pini marittimi, le indicherei tre o quattro poveri vecchi ovili rovinati tra le parcelle di pinete, testimoni silenziosi di un mondo prima la foresta quando i nostri antenati non avevano niente per limitare i loro sguardi verso l’Oceano; alle lande infinite e alle pecore hanno successo le pinete infinite e i caprioli; da una civiltà all’altra. Quando saremmo a Le Porge, prenderei verso Sud, costeggiando l’Oceano. Le direi che abbiamo varcato il confine invisibile tra il Médoc e il Paese di Buch, che siamo ormai “al bacino” come si dice semplicemente nel Médoc per designare la zona del Bacino di Arcachon. Dopo Lège, imboccheremmo l’unica strada provinciale, deserta in quel periodo, che porta fino al Cap-Ferret. Allora solo per lei, pronuncerei i nomi dei paesi attraversati della penisola con l’accento giusto, quello dimenticato degli antichi pastori delle lande e degli ovili rovinati. Le direi che il nome del villaggio di Piquey si pronuncia in italiano come qualcosa che suona: Pichei e non Piché come dicono i parigini e che la parola vuole dire duna, come quella di fronte, sulla riva Sud, la turistica, quella del Pilat. Parcheggerei la macchina ai serbatoi da pesce di Piraillan. Attraverseremmo i pini centenari, di cui certi hanno ancora le stimmate lasciate dai resinai cento anni fa, e le mimose in fiore. Lungo la ragnatela dei canali e nei gridi incessanti delle garzette e degli aironi, passeremmo sotto il fico dove più di cento anni fa, sorgeva la capanna di Jeanty D’armagnac, il guardacaccia. Una specie di San Francesco d’Assisi locale, che era sempre accompagnato ovunque vada, da nuvole d’uccelli di razze diverse; che ogni mattina saliva il piquey di Piraillan per pregare la Madonna ai piedi di un altare da lui edificato. Monica e io saliremmo a nostra volta il piquey di Piraillan e lei sarebbe sorpresa da tutti quei piquey che corrono verso l’Oceano. Poi ci sistemeremmo in cima al piquey, sopra i serbatoi da pesce dove i gridi degli aironi non si possono più farsi sentire. Là, osserveremmo, in un’apertura tra i pini, un angolo del Bacino di Arcachon e l’isola agli uccelli. Allora, le racconterei dei primi abitanti, i pescatori dell’altra riva, di Gujan oppure di Le Teich che venivano qui per pescare nelle acque pescose di quella penisola di sabbia, senza terra, senza pietra, senza niente eccetto quei piquey coperti di pinete: le racconterei delle capanne dei pescatori simili alle iurte mongole con i loro tetti strani rizzi di eriche, costruite a ridosso delle dune per proteggersi dai venti oceanici; le racconterei di quei primi abitanti intrappolati sulla penisola i giorni di grandi maree che ci si costruirono una nuova Arcadia; le racconterei delle capanne in legno fatta con le barche rovesciate quando i pescatori deciderono di coltivare le ostriche e un po’ di vigna; le racconterei delle mucche selvatiche e dei cavalli che attraversavano a bassa marea il bacino per andare a pascolare sull’isola agli uccelli. Racconterei tutto tanto bene che lei sarebbe come trasportata in quel mondo primordiale fino a vedere i cavalli selvatici alla punta ai cavalli e le barche traghettare verso l’isola agli uccelli oppure verso Arcachon. Poi, ci vorrebbe scendere il piquey e lasciare i serbatoi da pesce. Allora, lasceremmo Piraillan per tornare qualche cento metro indietro verso il villaggio di Piquey. Andremmo all’imbarcadero, a fare gli umarell e a spiare nei secchi dei pensionati che trascorrono tutto il loro tempo libero a pescare granchi verdi di cui si fa una zuppa speziata. Le tradurrei le loro stronzate a proposito di tutto e di niente, sparate a lunghezza di giornate, le loro coglionate come si dice nel Paese. Le direi che il solo ricordo felice che ho di mio padre era quando lui mi abbandonava bambino sull’imbarcadero per andare a raggiungere qualche “signora” e rimpiangerei subito questa confessione che si dissolverebbe, in un attimo, come una nuvoletta grigia nel cielo sopra il piquey del Pilat. Poi, sarebbe il momento di andare fino alla punta ai cavalli per comprare ostriche ai fratelli Fabbri che loro sanno ancora come si pronuncia piquey. Delle numero 2, direttamente prese nel bacino davanti alla capanna. Loro ne metteranno un po’ di più come fanno sempre. Tornerei alla macchina per andare a cercare il pane; il pâté e il vino di sabbia nella ghiacciaia. Poi ci sistemeremmo da qualche parte sulla spiaggia tra la punta ai cavalli e l’imbarcadero con la veduta sull’isola agli uccelli, la città di Arcachon e sul piquey scintillante di bianchezza del Pilat oppure della duna del Pilat come dice la gente. Poi lei mi chiederebbe – probabilmente no, ma mi piace crederlo – di finire il viaggio e di andare fino alla punta del Ferret. Sorriderei e lei me ne chiederebbe il perché, ma non le risponderei che abbiamo già visto tutto quello che c’era da vedere al Ferret….

 

Bacino di Arcachon: Racconto di una volta!

Traduzione grossolana e approssimativa – e anche dove si perdone le rime – da me di una poesia, Capre e gamberi, di Emilien Barreyre. Nato ad Arès nel 1883, Barreyre è il poeta del mare e della vita vissuta dai marinai del Bacino di Arcachon. Pescatore e figlio di un pescatore. Nessuno ha saputo come lui cantare l’oceano guascone, le sue sponde, la sua gente. Spinto da un povertà estrema, Barreyre lascerà il il suo caro Bacino di Arcachon nel 1930 e si stabilirà nella periferia parigina e, dopo alcuni anni a fare l’operaio la giornata e a scrivere poesie la notte, ci morirà nel 1944, senza mai aver potuto tornare nella sua terra natia.

*Nota bene: Per capire il qui pro quo tra il pescatore di Arcachon e il signor di Bordeaux: Crabe in francese significa granchio, ma, in guascone, la parola significa capra; bouc in francese significa capro, ma, in guascone, la parola significa gambero. Avete già male di testa? Ecco il racconto.

Capre e gamberi

Un signor di Bordeaux che veniva a Piquey
Passare l’estate con la sua famiglia,
Aveva per prendergli pesci presso la casa
Il pescatore Giovanni.
Un giorno che quel signor volle fare gustare granchi a un mercante di vino di Graves,
Disse al pescatore: Tenga, ecco cinque franchi in più per pescarmi granchi”.
“Capre?” si domandò il pescatore stupito,
Dove diavolo vuole che le pesco?
Quel vecchio conciliante è sempre comandato per qualche idea sempliciotta.
Ma sì! se ne forse viste all’isola degli uccelli?
Lì, ci sono cavalli arabi,
Muli, mucche, conigli, e alcuni vitelli.
Si potrebbe ben starci capre?
Se andassi a vedere? “E presto il pescatore parti
Con la sua barca, verso l’isola.
Arrivato, se ne andò nella giuncaia dove vivono
Molti animali a pelo ammucchiati.
A cento passi di essi si avvicinò, e, per spaventarli,
Ti fa girare nell’aria
La barra di un timone gridando: Hai! Cho! Poah!
Come lo pensate il grido del pescatore
Buttò il trambusto in mezzo al gregge;
Tutti scapparono: c’erano cavalli, mucche e tori,
E anche quattro asini bianchi che ricalcitrarono di paura,
Ma Giovanni non vedi né capre né caprette.
Mentre tornava verso la barca, egli incontrò un cacciatore
Che gli disse: “Tè! sei tu? Da dove vieni cosi?”
“Non me ne parlare, vorrei che quei signori fossero tutti impagliati ” rispose il pescatore.
Diavolo!… – “Figurati che un signor bordolese mi ha dato uno scudo perché gli pesco capre,
E…” – Capre! Dio vivante! Hé ben! amico mio, sai?
Credo che il tuo signor ne sarà per il suo denaro.
Ma capisco l’affare il tuo bordolese ti ha preso in giro,
E ti ha tirato un bidone, sicuro;
Perché ricordati che oggi siamo il primo aprile”
“È vero! Non ci ho pensato. Eh ben! Dio buono, gli farò pagare caro a quello lì, puoi crederlo;
Ah! Mi vuoi prendere in giro così? Si. Andiamo a vedere.”
E Giovanni allora se ne va alla barca,
Prende la sua rete e si mette a pescare
Di quei pesciolini che assomigliano ai gamberetti
E che si chiamano…ma zitto, farò il nome presto.
Per potere canzonare il signor di Bordeaux.
Un cestino pieno, il Giovanni ne tira
Va presentare la sua pesca al signor che gli fa:
“E i granchi?” Capre, non ci sono, risponde Giovanni,
Ma è solo un mezzo-male perché ho un pieno cestino
Di bestiole che sono della stessa famiglia.”
E come le chiamate?
– Té, veda! Ma sono gamberetti, no?
All’opposto sono i mascle (maschi) delle caprette poiché nel paese li chiamiamo…bouc*?

 

 

Bacino di Arcachon: La Duna del Pilat.

La Duna Bianca

Una volta, nessuno mi conosceva. Partoriente

Giacente sul fondo dell’Oceano tale un’isola inghiottita,

Il mio grande grembo di sabbia riparava a migliaia

Pesci impauriti dalle brusche mandibole focene.

 

Però, ogni volta, che verso la terra una tempesta faceva derivare

Le onde pesanti, la mia groppa prosperava

Di venti bracci; e un giorno i pescatori di Boïos

Mi videro sorgere scricchiolando alla superficie delle acque stanche.

 

E sempre verso il cielo, mi ergevo, lunga e larga,

E accecante di bianchezza sempre.

Irosa mentre accosto alla riva,

Per sfondarmi, da ogni lato,

L’Oceano mi colpisce.

 

Sforzi inutili: dolcemente traccio il mio cammino,

Alzando la testa sopra il vento marino.

E maestra dell’Abisso che piove, intorno a me,

i suoi vortici di schiuma. Tocco le sponde del Moulleau.

 

Dopo duecento anni di battaglia amara,

Ho visto morire Boios, e nella sua grande conca chiara,

Sentito i gridi guerrieri dei Vandali incendiari,

E la preghiera di cento poveri pescatori,

 

Salvati da Nostra Dama, una sera di temporale.

Alcuni secoli più tardi, un Grand’uomo nasceva

Che con il pino robusto e la canna gracile

Volle intralciare i miei balzi di gigante.

 

Delle dune, mie sorelle, che conquistavano il Paese.

Ed ecco che i pini e le canne si radicavano

Dentro le nostre viscere: E mi addormentai come le mie sorelle

Sotto le ombre di un bosco prodigioso.

 

Però una bella mattina d’estate, un ronzio,

Gioioso e continuo, si sentì e mi risvegliò.

E, chiedendo cos’era al bosco pinoso

Gli alberi mi risposero: “È il canto delle cicale”.

 

Vedendomi in mezzo a tanta ombra e a tanti  canti,

Allora gridai: “Dolcemente! O pinete giganti!

Perché non sta a voi di ombreggiare la mia vecchia groppa,

Ma sono io che devo ombreggiare le vostre giovane chiome!

 

“Dolcemente! perché non voglio perdere il mio nome di Duna Bianca!

Non voglio vedere su di me né erbe né rami.

Per la mia bellezza, ho bisogno soltanto di sole, e niente altro che il sole!”

E tornai a ergere la mia sabbia verso l’azzurro,

 

Tanto alto che oggi stesso, alla mia cima potete vedere

Alcune chiome di pini come cappelli spettinati.

E che presto  inghiottirò: Ed esse rivedranno la luce

Che quando tutti i miei grani saranno polvere che vola.

 

Traduzione grossolana e approssimativa da me di una poesia, la Ròca Blanca, di Emilien Barreyre. Nato ad Arès nel 1883, Barreyre è il poeta del mare e della vita vissuta dai marinai del Bacino di Arcachon. Pescatore e figlio di un pescatore. Nessuno ha saputo come lui cantare l’oceano guascone, le sue sponde, la sua gente. Spinto da un povertà estrema, Barreyre lascerà il il suo caro Bacino di Arcachon nel 1930 e si stabilirà nella periferia parigina e, dopo alcuni anni a fare l’operaio la giornata e a scrivere poesie la notte, ci morirà nel 1944, senza mai aver potuto tornare nella sua terra natia.

 

 

 

 

 

 

L’escuranha sus Andernos!

14 luglio. Bacino di Arcachon. Scritto sulla spiaggia di Andernos aspettando i fuochi d’artificio. L’escuranha in guascone è quel periodo magico che vi sta avvolgendo man mano in un lenzuolo di tenebra dopo il crepuscolo. Periodo magico rovinato da un ragazzina che vi chiede ogni trenta secondi: Eh, quando si sparano  i fuochi d’artificio già? E dal fratello maggiore che vi ripete a usura che i fuochi d’artificio inquinano come lui ha imparato quest’anno a scuola e che il coso non è affatto ecologico! Allora state là, in spiaggia, avvolto nel vostro lenzuolo di tenebra, con quei due fottuti ragazzini che rompono, e vi ricordate che l’escuranha non è per forza un momento magico, ma può essere anche malefico. Purtroppo, non potete liquidarli e dovete bere il calice fino alla feccia: è bassa marea stasera! 😉